Libero, 12 marzo 2018
«Io, figlia di un serial killer, ho cancellato la vergogna parlando al mondo di lui». Intervista a Melissa Moore
Stringeva tra le braccia possenti il fragile corpo della figlia ancora bambina. Miliardi di volte al giorno la accarezzava, le pettinava i capelli biondi tra le dita e sussurrava “ti voglio bene” in quelle orecchie minute. Melissa Moore ricorda bene la guancia ruvida del padre, con la barba appena rasata, che sfiorava la sua. L’odore, la voce profonda, la risata incontrollabile. Ricorda le mani sapienti che le medicavano il ginocchio sbucciato e la manica del giaccone verde con cui le asciugava gli occhi gonfi di pianto. E poi nella sua mente c’è il corpo di quel padre premuroso, Keith Jesperson, dietro alle sbarre di una prigione dell’Oregon. Le parole gelide pronunciate davanti ai giudici della Corte, con cui confessava di aver ucciso otto donne dal 1990 al 1995. Le aveva strangolate, violentate, picchiate a sangue fino a vedere i loro corpi senza vita.
Li aveva seppelliti, fiero di sé, sotto metri di terra nelle praterie disperse. «Happy face killer», l’assassino dalla faccia sorridente, lo avevano soprannominato i media americani. «Dopo ogni omicidio, spediva alla stampa una lettera in cui spiegava i dettagli del delitto firmata con uno smile», ci racconta Melissa, con la voce che si ferma in gola a ogni parola. Ha poco tempo per parlare. In Italia è quasi notte, ma dov’è lei, in California, è pieno giorno e si deve preparare, perché da lì a poche ore entrerà nell’aula di un tribunale. Oggi, infatti, ha 38 anni ed è avvocato. «Assumo sempre casi dove l’imputato è un assassino, come mio padre».
Torniamo indietro di qualche anno. Quando ha scoperto che suo padre era un assassino?
«I miei genitori avevano divorziato da diversi anni. Io, mia sorella e mio fratello vivevamo con mia madre e vedevamo mio papà una o due volte al mese. Quel giorno mia mamma ci chiamò urlando.Tutti e tre corremmo giù dalle scale. “Vostro padre è stato arrestato, ha ucciso una persona”. Ci disse semplicemente così e da quel momento non ne volle più parlare. “Non è un argomento di discussione in questa casa”, affermò in modo deciso. Io avevo 15 anni e per tutta l’estate del 1995, sono uscita di nascosto in biblioteca per leggere i resoconti del processo. Mio padre confessò i crimini uno dopo l’altro. Grazie a quelle ammissioni di colpevolezza riuscì a scampare dalla pena di morte e fu condannato a tre ergastoli, che sta scontando ancora oggi».
Lei era giovanissima: come reagiì? «Non ci potevo credere. Con me era sempre stato un padre premuroso. Com’era possibile che quelle stesse mani con cui mi aveva accarezzato tante volte avevano strangolato otto donne?».
Non c’era nulla nel comportamento di suo padre che facesse presagire una personalità “disturbata”?
«Negli anni ho iniziato a fare una serie di collegamenti con alcuni episodi del passato. Era un uomo “strano”, ma non ci avevo mai dato peso».
In che senso strano?
«Utilizzava un linguaggio scurrile, parlava apertamente di sesso davanti a noi figli. Raccontava persino di quando era stato a letto con mia mamma. Ci provava con le donne in modo spudorato con parole oscene. Per me, però, era normale, era sempre stato così».
Ho letto che utilizzava violenza anche nei confronti di animali...
«Sì, è vero. Da bambina un giorno trovai dei gattini e iniziai a giocare con loro nel giardino di casa. Mio papà ci vide, li prese uno a uno e li appese per la coda al filo del bucato. Io ho iniziato a piangere chiedendogli di smetterla di torturarli, mentre lui rideva. Sono corsa in casa a chiedere aiuto a mia mamma, ma quando tornai in giardino, i gatti erano morti. Un’’altra volta, invece, strangolò un gatto proprio davanti a me e mio fratello, sempre ridendo come fosse un gioco».
Com’è cambiata la sua vita quando tuo papà è entrato in prigione?
«È stato un incubo. Un giorno lessi la dichiarazione di uno dei familiari delle vittime che descriveva mio padre come un mostro e sosteneva che meritasse la pena di morte. Sapevo che aveva tutto il diritto di dirlo, ma quello era comunque mio papà. Non riuscivo a bilanciare i sentimenti. Cercai di nascondere quello che era successo, assunsi il cognome di mia madre. Mi misi in testa che lui era un camionista, e per lavoro andava e veniva. In quel momento era fuori dalla mia vita. Alle superiori quando è uscita la notizia, i genitori dei miei compagni erano davvero sconvolti dal pensiero che i loro figli avrebbero potuto essere in pericolo e li hanno tenuti lontani da me. Da lì ho cominciato a provare tremendi sensi di colpa e vergogna».
Sensi di colpa per cosa?
«Per quello che lui aveva fatto. In un certo senso pensavo che nemmeno io meritassi di vivere, che dovessi essere punita perché ero sua figlia. Proprio in quegli anni ho avuto una relazione con un ragazzo violento, che mi offendeva e maltrattava. Pensavo fosse giusto così. Me lo meritavo».
Suo papà non l’hai più visto?
Per dieci anni non sono mai andata a trovarlo. Ho finto che non esistesse più. Poi però ho conosciuto l’uomo con cui mi sono sposata e mi sono decisa a raccontargli tutto. Lui mi ha accompagnata in prigione da mio padre».
Com’è stato il vostro incontro?
«Mi ero ripromessa di fingere che fosse solo mio padre e non l’assassino di otto donne. Lui si comportò normalmente, come nulla fosse successo. Durò pochissimo quella visita. Non sapevo cosa dirgli, era passato troppo tempo. Decisi che non sarei andata mai più a trovarlo e che avrei continuato a fingere che non esistesse. Poi però un giorno è arrivata la domanda di mia figlia».
Voleva conoscere il nonno?
«A scuola le avevano spiegato che chiunque ha un padre. Lei, tornata a casa, voleva sapere dove fosse il mio. Io sono rimasta pietrificata, sapevo che quella domanda prima o poi sarebbe arrivata. Le ho risposto: “A Salem, in Oregon”. Non era una bugia, lui si trova lì, ma è in prigione. Da quel momento il dolore di vivere con i segreti è diventato più grande. Dovevo dire al mondo chi ero. Ho iniziato a rilasciare interviste ai media, ho ricevuto centinaia di mail da familiari di altri serial killer che mi ringraziavano per aver raccontato la mia storia e per chiedere consigli. Ho cominciato a viaggiare per vedere queste persone o parlare con loro al telefono. Ho creato un’intera rete di persone come me figlie, figli, fratelli, genitori e nonni di serial killer. Finora ho avuto contatti diretti con più di 300 persone. Siamo una comunità sotterranea».
Cosa prova oggi per lui?
«Rabbia. Mio padre non riceverà mai la pena di morte per i suoi crimini, ma se la meriterebbe. Non lo dico per me stessa, ma per le sue vittime. Per anni mi sono presa gioco di me, sapevo che aveva fatto cose terribili, ma credevo che lui amasse me e i miei fratelli. Poi un giorno, ho avuto una conversazione con mio nonno. Mi ha detto: “Sai, sono andato a trovare tuo padre in prigione, e ha detto che quando eri bambina aveva avuto pensieri di ucciderti”. Forse la gente non può capirlo, ma sentire questa frase mi ha dato la libertà. Mi ha permesso di vedere che in realtà non c’era stata una doppia vita: c’era sempre stato un solo Keith Jesperson».