Il Messaggero, 13 marzo 2018
E il Vate creò la politica show
La credenza nell’Italia come «laboratorio politico» in grado di anticipare tendenze che altri Paesi poi seguiranno è troppo diffusa per non essere diventata stucchevole e, a ben vedere, solo parzialmente vera. Però su alcuni versanti lo siamo stati laboratorio politico, eccome. Uno è quello della politica come estetica, del gesto politico come gesto artistico: insomma della politica come spettacolo. Il cui precursore fu Gabriele D’Annunzio, di cui quest’anno ricorrono gli ottant’anni dalla morte.
EVOLUZIONE
Quando, giovanissimo, da Pescara, arrivò nella Roma umbertina, nel 1881, e divenne giornalista culturale e mondano, nonché già insaziabile tombeur des femmes e poi autore del romanzo Il Piacere (1889), per lui solo l’estetica contava. Anzi, l’estetismo, il culto della bellezza come sostituto della religione e unica ragione di vita, che era fenomeno contemporaneo europeo, inglese e francese. Nulla sembrava più lontano dal protagonista Sperelli, alter ego dell’autore, che l’interesse pubblico. E così nei romanzi degli anni successivi, il Trionfo della Morte, Le Vergini delle Rocce, o nelle raccolte poetiche (l’Alcyone): anche la lettura di Nietzsche conduceva il poeta verso un disprezzo nei confronti della politica, che portava con sé quello verso il parlamento, le masse, l’opinione pubblica: verso la democrazia.
Eppure sotto la coltre pulsava in D’Annunzio il modello del Vate, del poeta nazionale e perciò politico, incarnato da Carducci, ma ancora in vesti risorgimentali, mentre D’Annunzio sentiva di doversi aggiornare per i tempi nuovi che premevano. Tra ricerca spasmodica di denari per sovvenzionarsi vita sfarzosa e amanti, D’Annunzio nel 1897 si fece eleggere deputato della «estrema destra» ma per poi passare subito con la «sinistra», dove a suo dire c’era la «vita».
PALCOSCENICO
Ma la sua idea di politica mal si sposava con i ruoli istituzionali, come quello di deputato. Quella era piccola politica, democratica, la grande invece era quella degli eroi, che doveva introdurre la bellezza nel mondo: come nel più politico dei suoi romanzi, Il Fuoco, con il mito di Venezia, importantissimo fino alla fine.
La politica per D’Annunzio è infatti materiata di miti; quello di Venezia e quello dell’antica Roma e delle guerre puniche, uniti in un mélange volutamente anacronistico nei suoi poemi che, durante il conflitto italo-turco per la Libia, tra il 1911 e il 1912, cantavano la bellezza della guerra e della «nazione eletta». Ma la politica come gesto eroico e estetico vuol dire anche esaltazione della tecnica; da qui il mito della velocità e dell’aereo (che D’Annunzio imparò a condurre) con cui fece concorrenza ai futuristi, che per molti versi lo detestavano. Destra e sinistra, socialismo e liberalismo, erano categorie che per D’Annunzio volevano dire poco. Certo egli era il rappresentante più eminente del nazionalismo, pur non essendo iscritto al «partito» nazionalista, ma il suo obiettivo fu ben più grande: il mito, il bello, il sublime non potevano essere racchiusi in categorie.
La Grande guerra fu quindi il palcoscenico ideale di un D’Annunzio un po’ in crisi sul piano della creatività artistica, forse era più interessato a tradurre il suo genio nella politica-spettacolo, alla campagna interventista e poi alla partecipazione area e navale; conflitto che egli cercò di colorare di bellezza aristocratica, laddove buona parte degli altri lo combattevano in trincea, morendo nell’anonimato della massa.
IDEALI
Il punto più alto del D’Annunzio politico fu però la cosiddetta impresa di Fiume, nel settembre 1919, l’occupazione della città portuale croata, negata all’Italia dagli alleati, da parte del suo esercito privato di «legionari». La «Reggenza del Carnaro», che D’Annunzio vi costruì e che dominò da «dittatore» per poco più di un anno, fu molti aspetti un’anticipazione del fascismo, a cominciare dal rito del discorso del balcone. Ma, sul piano della politica sociale, fu più vicina al bolscevismo – e D’Annunzio riconobbe persino la Russia leninista. E, autoritaria per più versi, fu anche un’esperienza, per quel tempo, libertaria. Di certo traduceva l’idea dannunziana di politica: il capo è tale perché ha il coraggio dell’eroe e respira la bellezza dell’azione. Con il mito della vittoria mutilata, un altro degli slogan di questo straordinario inventore di formule pubblicitarie, D’Annunzio aprì la strade al fascismo.
IL TEMPO
Ma fu un fascista? I metodi delle squadracce e delle camicie nere erano per lui «schiavismo agrario». Mussolini lo temeva; vedeva colui che era in grado di pacificare il Paese, portandosi appresso quella gioventù che aveva con entusiasmo aderito al fascismo, ma andando oltre. Anche se in alcuni momenti D’Annunzio pensò di scendere in lizza per incarnare questo ruolo, le tentazioni rientrarono presto. E con l’avvento del regime le sue prese di posizioni pubbliche a favore di Mussolini, come la firma del Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925, la presidenza dell’Accademia d’Italia, l’adesione alla guerra di Etiopia, prevalsero sugli sfoghi privati contro la politica del Duce, soprattutto l’alleanza con Hitler. In realtà era finito il tempo di D’Annunzio: e la politica dei fascisti era sì spettacolo ed estetica, come egli aveva insegnato loro, ma irreggimentata e massificata; qualcosa che lo spirito di un nazionalista anarcoide come il Vate trovava irrimediabilmente volgare, e soprattutto conformista. Da qui il rinchiudersi nello spettacolo privato del Vittoriale degli Italiani, fino alla morte.