la Repubblica, 13 marzo 2018
Rick Rubin: «Jovanotti, gli U2 o Johnny Cash: io chiudo gli occhi e medito sulla musica»
Sono agitato come una sposa», dice Lorenzo Jovanotti nervoso.
Sua moglie ride: «No, molto di più». L’arrivo della “sposa” è da kolossal.
Un elicottero si intravede tra gli alberi della campagna toscana. Trasporta un uomo che ha l’aspetto di un santone: barba bianca lunghissima, maglietta bianca ieratica, pantaloncini essenziali, scalzo.
Così iniziarono le registrazioni di Oh, vita!, l’ultimo album di Jovanotti. Realizzato insieme a quello che probabilmente è il produttore più famoso al mondo: Rick Rubin.
Dietro un grande artista c’è sempre un grande produttore.
Cosa sarebbero stati i Beatles senza George Martin? E Michael Jackson senza Quincy Jones?
Gli U2 senza certe illuminazioni di Brian Eno? Quanti avrebbero infranto i muri della percezione senza il “wall of sound” di Phil Spector? E quindi: cosa avrebbe fatto oggi Jovanotti senza Rick Rubin? Rubin, 54 anni, newyorchese, dieci Grammy Award, ha esordito tenendo a battesimo i Beastie Boys ed è arrivato a lavorare con superstar come U2, Metallica, Eminem, Red Hot Chili Peppers. Il suo quartier generale sono gli storici Shangri La Studios di Malibu resi famosi da Bob Dylan e Eric Clapton, acquistati nel 2011. «Rubin ha la capacità di prendere una mia canzone e portarla all’essenza», dice di lui Lorenzo. «Aiuta gli artisti ad avere coraggio. E gli artisti sono la categoria più insicura, più vulnerabile, anche se si mostrano sicuri di sé sul palco».
Rubin, perché ha scelto Jovanotti?
«Ci siamo incontrati a un evento in Italia, io non conoscevo nessuno e mi sentivo fuori luogo.
Lorenzo disse parole molto gentili e mi aiutò a sentirmi il benvenuto».
Jovanotti da tempo dice di voler realizzare un album di puro hip hop. È quello che ha proposto a lei?
«No. Mi ha portato brani di qualsiasi genere. Voleva vedere dove ci avrebbe portato l’energia creativa».
Aveva ascoltato la sua musica?
«No».
Ha imparato la lingua italiana?
«Non ancora. Ma mi piacerebbe».
Jovanotti dice che lei sta pensando di aprire uno studio di registrazione in Italia.
«Sarebbe un sogno poter lavorare regolarmente in Toscana».
Conosce musica italiana?
«Amo le melodie tradizionali napoletane. E Roberto Murolo.
La musica folk è toccante».
Far uscire gli artisti dalla loro “comfort zone” è la sua regola?
«Non c’è una regola. Se un artista è abituato a fare le cose sempre nello stesso modo cambiare può essere stimolante. Rinvigorente.
Eccitante».
“Less is more”, gioca di sottrazione con la musica?
«Sì. Ma le regole sono lì per essere infrante».
Ha lavorato con i più grandi.
È rimasto mai abbagliato dalla fama?
«Dopo un po’ di tempo capisci che gli artisti sono persone normali.
Magari con un punto di vista particolare e interessante o capacità diverse. Ma persone come noi. Che hanno bisogno di esprimersi…».
Ha collaborato con Adele e Ed Sheeran, ma delle session realizzate con loro solo una parte è stata pubblicata, ci sono state difficoltà?
«Per niente. È stato divertente con entrambi e hanno scelto loro in che direzione andare in ogni momento. In entrambi i casi il lavoro insieme è stato prezioso per spingerli oltre».
Il suo ricordo di Johnny Cash?
«La vita spirituale di Johnny aveva un grande peso. Emanava verità, saggezza, forza e fede».
È vero che anche lei prendeva l’ostia con Cash?
«Sì, facevamo la comunione insieme nell’ultimo anno della sua vita».
In che modo la meditazione l’aiuta nel lavoro? È facile immaginarla nella posizione del loto con gli occhi chiusi mentre ascolta musica.
È davvero così o solo un luogo comune?
«La meditazione ci insegna la pazienza e l’abilità di vedere le cose più profondamente.
Ci sono strati da togliere dietro altri strati. Sì, spesso chiudo gli occhi quando ascolto la musica».
Tutto iniziò con i Beastie Boys quando nel 1983 lei fondò l’etichetta Def Jam ancora teenager.
«I Beastie erano i miei amici punk rock all’università. Uscivamo insieme tutte le sere per vivere la vita notturna di New York.
Amavamo tutti l’hip hop e il punk rock. Era un periodo veramente eccitante per la musica».
E oggi come vede la musica?
«Il business è in una fase transitoria verso l’eccellenza.
I nuovi artisti possono creare più facilmente e in modo più personale che mai. La nuova musica è abbondante e stimolante. I guardiani dei cancelli non possono più bloccare il passaggio. È un buon momento per essere un artista».
Lo streaming salverà l’industria musicale?
«Lo streaming è una buona cosa per gli amanti della musica.
C’è ancora passione per la musica ma forse non nello stesso modo.
L’amore per la musica è sempre presente, ma la sua ubiquità cambia il modo di relazionarsi ad essa. Prima andava cercata, collezionata. Ora la storia della musica è a portata di mano».
Le manca qualcosa degli esordi?
«Niente. Era bello allora fare musica ed è bello ora. Non c’è niente come ascoltare qualcosa di magico che viene creato per la prima volta».