la Repubblica, 13 marzo 2018
L’amaca
Delle tante cose imparate in questi giorni, non va trascurata la constatazione che la politica non era affatto in crisi, come si pensava sopravvalutando i nostri pensieri e sottovalutando quelli altrui.
Non solo la forte affluenza (che pure è un gran dato), anche l’incrociarsi delle passioni post-voto dice proprio il contrario: che la politica è viva e appassiona, agita, coinvolge, ferisce. Basterebbero, a dirlo, le centinaia di lettere che ogni giorno, dal 4 di marzo, arrivano a questo giornale.
Si consumano rancori scespiriani (Monica Cirinnà che dice, e come darle torto, di avere ancora il coltello dei cinquestelle “piantato nella schiena”). Si riconsiderano i tempi e i modi dei precedenti atti, le parole spese, le offese subite e inferte, per capire se debba prevalere la Bibbia (occhio per occhio, dente per dente) o il Vangelo (non fare agli altri ciò che non vorresti essere fatto a te). E ogni futuro passo, perfino nelle analisi compassate dei politologi, viene immaginato anche come conseguenza delle passioni umane, quelle degli eletti come quelle degli elettori.
Ergo: uno degli errori esiziali degli ultimi anni è stato chiamare “antipolitica” ciò che era politica allo stato puro, con le sue miserie e le sue ambizioni. Ha fatto benissimo Gianni Cuperlo, fuori dalla palazzina dove il Pd rimastica il suo dramma, a ricordare a Matteo Renzi che il futuro non è scomparso: più semplicemente, al momento, abita altrove.