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 2018  marzo 13 Martedì calendario

Evasione globale, i big del mondo pagano meno tasse

NEW YORK Il mondo intero è un grande paradiso fiscale. Almeno per loro: le grandi aziende multinazionali.
Benché soffi il vento delle rivolte populiste, benché l’Europa annunci la web tax, benché lo scandalo della maxi-elusione fiscale sia denunciato da anni… La realtà è questa: dalla crisi del 2008 in poi, i privilegi fiscali concessi alle multinazionali non hanno fatto che aumentare, e a dismisura. Loro continuano a pagare sempre meno, mentre noi (tutti gli altri, dalle persone fisiche alle piccole imprese) paghiamo ancora di più. Tra i due fenomeni c’è un legame ferreo: da qualche parte gli Stati devono reperire le risorse per finanziare i servizi pubblici.
Il costante alleggerimento della pressione fiscale sulle multinazionali trova conferma in una dettagliata analisi compiuta dal Financial Times. Il quotidiano economico inglese avvalendosi di consulenze esterne ha passato ai raggi X ben 25 anni di bilanci societari. Ha esaminato i nove principali settori di attività economica. Per ciascuno di questi ha scelto le dieci aziende più grosse per capitalizzazione di Borsa. Un lavoro imponente, su un campione largo e rappresentativo. Vi ha poi aggiunto un’ultima categoria, le dieci multinazionali che hanno i più grossi “tesori” di cash parcheggiati all’estero.
Il risultato di questa analisi è forse prevedibile, certamente scandaloso. Dalla crisi del 2008 ad oggi, le aliquote effettive di prelievo fiscale a cui sono sottoposti i profitti di queste grandi aziende sono scese del 9%.
Tutto questo è accaduto nonostante che i governi proclamassero l’esatto contrario: cioè di voler condurre una lotta spietata all’elusione fiscale delle grandi aziende. Non ne hanno fatto nulla. In realtà il periodo post-crisi è in perfetta continuità con gli anni precedenti. Se si retrodata l’analisi partendo dal 2000, il beneficio per le grandi aziende è ancora più vistoso: dall’inizio del millennio la pressione fiscale sui loro profitti è scesa addirittura di un terzo, dal 34% al 24%.
L’alleggerimento costante delle tasse sulle multinazionali va nella direzione opposta al prelievo su tutti gli altri. Lo dimostra il fatto che dal 2008 ad oggi le imposte sulle persone fisiche sono ancora aumentate, in media del 6%. Si tartassa il ceto medio per regalare privilegi alle grandi aziende.
Questi dati elaborati tra l’altro sono sottostimati rispetto all’evoluzione più recente. Infatti non possono includere la riforma fiscale varata negli Stati Uniti dal Congresso su proposta di Donald Trump. Questa riforma fu votata alla vigilia di Natale e i primi effetti cominciano a sentirsi solo ora. La sua principale caratteristica? Un altro gigantesco regalo alle imprese. L’imposta sugli utili scende dal 35% al 21%. Vi si aggiunge inoltre una sorta di condono fiscale per il rimpatrio dei profitti parcheggiati all’estero: questi godono di un’aliquota ancora più bassa, appena il 15,5%.
Va ancora aggiunto che tra le aliquote “nominali”, ufficiali, e la realtà, c’è un divario dove si annida altro spazio per l’elusione.
I dati che il Financial Times raccoglie da varie fonti (Kpmg, Ubs tra le altre) indicano per le dieci maggiori aziende del mondo uno scarto enorme tra il prelievo che teoricamente si applica ai loro profitti, e quello che alla fine pagano davvero. La differenza è abissale per un’azienda come Amazon, per esempio: l’aliquota ufficiale doveva superare il 30%, le tasse pagate sono più vicine allo zero per cento. Quando non sono i governi a coprirle di favori, eccezioni, esenzioni e agevolazioni speciali, ci pensano gli uffici legali di queste aziende a sfruttare ogni cavillo legislativo per eludere le tasse.
Per una coincidenza, nello stesso giorno in cui esce questo rapporto del Financial Times, negli Stati Uniti vengono divulgati altri dati che riguardano lo stesso tema: quello delle diseguaglianze.
Perché alla fine di questo si tratta: le storture e iniquità fiscali aggravano una situazione già anomala in fatto di ineguaglianze. Il dato americano riguarda la distanza tra gli stipendi degli amministratori delegati (chief executive) e quelli dei loro dipendenti. È un raro atto di trasparenza, forse irripetibile perché dovuto a una riforma dell’ èra Obama che rischia di essere abrogata. Nella legge Dodd-Frank approvata dopo la crisi del 2008 c’era inserito anche l’obbligo di pubblicare queste informazioni sulle società quotate. Così veniamo a sapere le distanze enormi che separano i Grandi Capi dalla plebe che lavora per loro: si va dalla Whirlpool (elettrodomestici) dove il chief executive guadagna 356 volte lo stipendio del suo dipendente medio, alla Marathon Petroleum dove il divario è 935 a uno. Ora sappiamo anche a cosa serve regalare sconti fiscali alle imprese: a pagare i loro top manager ancora di più.