Corriere della Sera, 13 marzo 2018
Morto l’imprenditore Soffiantini. Il suo sequestro rimane un giallo
Giuseppe Soffiantini – l’imprenditore lombardo scomparso ieri a 83 anni e divenuto noto per il sequestro di cui fu vittima tra il 1997 e il 1998 – è l’ultimo morto del «caso Soffiantini». Se n’è andato il protagonista principale, l’ostaggio intorno a cui tutto è ruotato, rimasto vedovo meno di un anno fa, padre di tre figli, autore di un libro-memoriale sui suoi giorni da prigioniero da cui fu tratto uno sceneggiato televisivo. Ma prima di lui se ne sono andati, o aleggiano come fantasmi, altri personaggi che ebbero ruoli tutt’altro che da comparse in una vicenda vecchia di vent’anni che ancora alimenta misteri e perfino atti giudiziari. Come il più recente, che risale a dieci giorni fa e riguarda proprio il fantasma di questa storia: Attilio Cubeddu, uno dei carcerieri di Soffiantini, ufficialmente latitante dal gennaio 1997, ma secondo alcuni vittima di un omicidio commesso dal suo complice Giovanni Farina, per non dividere i soldi del riscatto. Accusa mai provata.
Nel dubbio se sia vivo o morto, il 3 marzo scorso i carabinieri hanno proceduto alla confisca ad Arzana, in provincia di Nuoro, di un fabbricato di quattro piani, dal valore stimato di circa 400.000 euro, nel quale abitano la moglie e la figlia di Cubeddu. L’ordine è arrivato dalla Corte d’appello di Roma, l’ultima a giudicare le gesta del bandito sardo che evase dalla prigione di Badu ‘e Carros (dov’era rinchiuso per altri sequestri) a gennaio del 1997 e pochi mesi dopo prese in consegna (insieme a Farina), l’imprenditore tessile, allora sessantaduenne, Giuseppe Soffiantini, rapito la sera del 17 giugno 1997 da uno strano miscuglio di Anonima sarda e pregiudicati romagnoli, con un basista a Manerbio, in provincia di Brescia. Lo tennero segretato nella boscaglia, tra le provincie di Grosseto e Siena, e non fu una prigionia semplice. Per via delle violenze subite dall’ostaggio (gli tagliarono pure un pezzo d’orecchio, secondo il più crudo rituale dei sequestri), e per via dei morti, appunto, che hanno segnato questa storia.
Il primo fu l’ispettore di polizia, Samuele Donatoni. Rimase ucciso la sera del 17 ottobre 1997, nella campagna laziale di Riofreddo, in uno scontro a fuoco tra i banditi che volevano prelevare il riscatto per la liberazione dell’ostaggio e le «teste di cuoio» dei Nocs che dovevano intercettarli e catturarli. Ma qualcosa andò storto, i malviventi mangiarono la foglia, si accorsero che qualcosa non andava nel piano concordato con gli intermediari della famiglia Soffiantini, ci fu una sparatoria e Donatoni fu colpito a morte. Dai banditi, stabilirono le prime indagini e i primi processi, finché nuovi accertamenti imboccarono la pista del «fuoco amico» che portò alla revisione e cancellazione delle condanne. Ma nel 2016, durante il processo per calunnia a carico di alcuni poliziotti, è saltata fuori una nuova perizia che rimette in discussione le conclusioni a cui era giunta perfino la Cassazione, alimentando i dubbi su quella operazione sciagurata. Alla quale ne seguì un’altra, pochi giorni dopo, sotto il tunnel di un’autostrada in Abruzzo, con un nuovo conflitto tra banditi e polizia; stavolta a farne le spese fu uno dei sequestratori, Mario Moro, rimasto gravemente ferito. Sulla base di qualche sua indicazione le ricerche dell’ostaggio si concentrarono per giorni nei boschi della Toscana, ma senza risultati. Soffiantini fu trasferito in un altro rifugio e dal suo letto di ospedale Moro lanciò un appello davanti alle telecamere delle tv: «Sento il dovere morale di esortare i miei compagni a rilasciare l’ostaggio incondizionatamente, perché è anziano e sofferente ed è giusto che torni a casa». Ma l’imprenditore non tornò, e tre mesi dopo, il 14 gennaio 1998, Moro morì durante il percorso tra il carcere di Opera e un ospedale.
Soffiantini rimase prigioniero per altre tre settimane, fino alla liberazione avvenuta il 9 febbraio ‘88, dopo 237 giorni, che però non chiuse il «caso». Le indagini seguirono le tracce dei soldi pagati per il riscatto: cinque miliardi di lire, si disse all’epoca. Tra gli intermediari entrati in gioco c’era un vecchio amico dell’imprenditore rapito, l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, che fu condannato per truffa ai danni della famiglia Soffiantini. È morto anche lui, a 77 anni d’età nel settembre 2014, e Soffiantini commentò la sua dipartita con queste parole: «Mi sono sentito tradito, perché ha tenuto per sé soldi che la mia famiglia aveva dato per salvarmi la vita». Tranne Cubeddu, gli altri sequestratori individuati e condannati sono stati tutti arrestati; compreso Farina, che era scappato in Australia, estradato nel 2000. Soffiantini andò a incontrarlo fin laggiù, ma non seppe riconoscerlo con certezza come uno dei suoi carcerieri. Nonostante ciò arrivò la condanna a 28 anni e mezzo, che finirà di scontare nel 2021.