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 2018  marzo 12 Lunedì calendario

APPUNTI SULLA SEGRETERIA DEL PD

LASTAMPA.IT –
Con la direzione nazionale del Partito Democratico si apre l’era Martina: è il vicesegretario del Pd a condurre i lavori che mettono ufficialmente la parola fine alla leadership di Renzi. «In questo quadro duro e difficile, nel Lazio, la vittoria di Nicola Zingaretti e del Pd con la coalizione di centrosinistra è certamente un risultato molto significativo. Voglio poi ringraziare per la passione e l’impegno Giorgio Gori che ha combattuto una battaglia assai difficile in Lombardia», ha esordito Martina. «E un grazie va al Presidente del consiglio Paolo Gentiloni, a tutti i ministri e al governo per l’impegno costante garantito anche in queste settimane». 
 Per seguire i lavori, nella sede del Partito democratico è presente anche il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Assente Matteo Renzi: a leggere la lettera di dimissioni dell’ex premier è stato Matteo Orfini: «Preso atto dei risultati elettorali rassegno le mie dimissioni. Ti prego di convocare l’Assemblea, in quella sede spiegherò le ragioni delle dimissioni».  «Mi dimetto ma non mollo»  «Io non mollo. Mi dimetto da segretario del Pd come è giusto fare dopo una sconfitta. Ma non molliamo, non lasceremo mai il futuro agli altri», ha scritto Matteo Renzi nella Enews, a poche ore dalla direzione Pd. «Abbiamo perso una battaglia, ma non abbiamo perso la voglia di lottare per un mondo più giusto», aggiunge: «Grazie per questi bellissimi anni di lavoro insieme. Il futuro prima o poi torna».   L’intervento di Martina  La «reggenza» del Pd è quindi passata a Martina, che in direzione annuncia una gestione collegiale (in forme da definire) della travagliata fase di transizione. «Spetta a chi ha vinto la responsabilità del governo», sostiene Martina, ponendo il Pd all’opposizione. «Alle forze che hanno vinto diciamo una cosa sola: ora non avete più alibi. Ora il tempo della propaganda è finito. Lo dico in particolare a Lega e Cinque Stelle: i cittadini vi hanno votato per governare, ora fatelo. Cari Di Maio e Salvini prendetevi le vostre responsabilità». Lo ha detto il vicesegretario del Pd Murizio Martina nella relazione di apertura della Direzione, durante la quale ha ribadito che il Pd «continuerà a servire i cittadini dall’opposizione, dal ruolo di minoranza parlamentare». «La nostra sconfitta è stata netta - ha detto Martina - Intendiamo rispettare profondamente il voto di tutti gli italiani e saremo coerenti con gli esiti del 4 marzo. Ora tocca a chi ha ricevuto maggior consenso l’onore e l’onere del governo del paese. Noi continueremo a servire i cittadini, dall’opposizione, dal ruolo di minoranza parlamentare».  Prima il progetto, poi le primarie  «La prossima Assemblea Nazionale dovrebbe avere la forza di aprire una fase costituente del partito democratico in grado di potarci nei tempi giusti al congresso. Perché il nostro progetto ha bisogno ora più che mai di nuove idee e non solo di conte sulle persone. Ha bisogno di una partecipazione consapevole superiore a quella che possiamo offrire una sola domenica ai gazebo. Abbiamo bisogno di una lettura politica e culturale all’altezza del tempo che stiamo vivendo. Di una profonda riorganizzazione, in grado di investire davvero sui territori e sulla partecipazione diretta della nostra comunità alle principali scelte politiche da compiere. Questo lavoro potrebbe iniziare proprio con la prossima Assemblea dando vita a una Commissione di progetto incaricata di elaborare unitariamente ipotesi concrete per il percorso», aggiunge Martina.  «Ripartiamo con umiltà e unità. Solo noi possiamo essere l’alternativa popolare ai populisti. In ballo non ci sono i destini personali, ma la prospettiva e il futuro della sinistra italiana ed europea. Mettiamo in prima fila la nostra comunità e lasciamo in ultima fila le correnti. Proviamo tutti a fare qualche intervista in meno e qualche assemblea in più. Apriamo subito le nostre sezioni, ascoltiamo iscritti ed elettori, chiamiamoli a raccolta, riflettiamo con loro. Ripartiamo dal basso e dal nostro popolo. Abbiamo seimila circoli, realizziamo seimila assemblee aperte tra venerdì, sabato e domenica prossimi. Io inizierò dal circolo PD di Fuorigrotta a Napoli».   La presidenza delle Camere  Il tentativo è per ora evitare «conte», sia in direzione che la prossima settimana, quando si dovranno eleggere i capigruppo. Già si ragiona di una presidenza renziana e una di mediazione (si citano Guerini e Rosato alla Camera, Bellanova e Parrini o anche Pinotti al Senato). E Matteo Orfini tira il Pd fuori anche dalle presidenze delle Camere, definendo «legittimo» che vadano a M5s e Lega, con una soluzione che eviterebbe dispute interne. Ma i prossimi passaggi sono tutt’altro che scontati e tra i Dem c’è chi non reputa chiusi i giochi neanche per la presidenza delle Camere: il primo ostacolo - ammettono però - è che il Pd dovrebbe essere tutto unito per trattare. «Ribadiamo qui la stima e la piena fiducia nella persona e nell’operato del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sappiamo che la sua guida sarà un punto di riferimento», conclude Martina.  Delrio: «Stiamo uniti»  «Siamo ancora il secondo partito italiano, staremo uniti». Lo afferma Graziano Delrio, in direzione Pd. Delrio ha aperto il suo intervento ringraziando Renzi per tutto quello che ha fatto e per la scelta che ha compiuto con le dimissioni. «Maurizio Martina - aggiunge Delrio - tu ora hai mandato pieno. Grazie per la sua analisi franca e seria. Per ripartire abbiamo bisogno di analisi rigorose come questa. Dobbiamo dire ad elettori ed eletti che il Pd c’è ancora». «Non bisogna vergognarsi di aver detto la verità. Noi abbiamo cercato di dire la verità» in campagna elettorale, sottolinea: «Abbiamo bisogno di bussole che ci facciano capire i conflitti che ci sono, devono essere leggibili».   Cuperlo: «Diamo fiducia a Martina»  «Ho apprezzato la relazione di Maurizio Martina, a partire dal giudizio sincero sul voto. Per sinistra è stato il dato peggiore della storia dell’Italia repubblicana. Oggi deve essere il tempo della verità e della svolta. Perdiamo per un vuoto decennale di identità. Martina ha ragione sulle cause di questa sconfitta e bisogna ripartire dalle idee. Dovremo dare fiducia a Maurizio e costruire subito la collegialità necessaria per affrontare questa fase. Il Partito democratico c’è, ora dimostriamo che questa sconfitta non è un destino». Così Gianni Cuperlo alla direzione Pd. 
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Pd, Orlando: pronto a sciogliere correnti ma discussione seria "Non vogliamo recriminare ma chiarezza su metodo" Roma, 12 mar. (askanews) - "Vogliamo dare un contributo, non vogliamo recriminare, vogliamo chiarezza non tanto sull’approdo, ma nel metodo che ci diamo. Evitiamo il fatto di ridurre tutto a un tema di contrapposizione tra leadership e correnti. Io sono disposto a superare l’attuale assetto correntizio sciogliendo l’area che ha fatto riferimento a me. Facciamolo, ma troviamo delle sedi in cui è possibile fare una discussione seria e non stereotipata". Lo ha detto Andrea Orlando, intervenendo alla direzione del Pd. Orlando ha anche detto di capire "meno bene il residuo dell’assetto del gruppo dirigente precedente" che andrebbe superato "per dare il segno di una fase nuova". Red-Pol 20180312T190608Z

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REPUBBLICA.IT – E’ la prima direzione Pd del post Renzi, una direzione che inizia con la lettura della dimissioni del segretario dem, assente. Solo poche parole le sue, poi Maurizio Martina, il vicesegretario, esordisce: "Guiderò il partito con il massimo della collegialità e con il pieno coinvolgimento di tutti, maggioranza e minoranze, individuando subito insieme un luogo di coordinamento condiviso. Chiedo unità". 
E lancia la prima sfida: "L’Assemblea nazionale di aprile anziché avviare il congresso e le primarie dovrebbe dar vita a una Commissione di progetto per una fase costituente e riorganizzativa". Quindi chiarisce la posizione del Pd,  "l’opposizione", e si rivolge alle forze che hanno vinto le elezioni: "A Lega e Cinque Stelle dico: i cittadini vi hanno votato per governare, ora fatelo. Cari Di Maio e Salvini prendetevi le vostre responsabilità".
Netto il bilancio della sconfitta, che definisce "inequivocabile", mentre un plauso merita la vittoria alla Regione di Nicola Zingaretti - "un risultato molto significativo" -  e complimenti a Giorgio Gori "per l’impegno e la passione"; sguardo al futuro con una chiamata a iscritti ed elettori "solo noi possiamo essere l’alternativa popolare ai populisti. Abbiamo seimila circoli, realizziamo seimila assemblee aperte tra venerdì, sabato e domenica prossimi. Io inizierò dal circolo Pd di Fuorigrotta a Napoli" e infine ribadisce la stima e la fiducia nella persona e nell’operato di Sergio Mattarella.

LA ENEWS DI MATTEO RENZI: "MI DIMETTO MA NON MOLLO""Ho ricevuto email bellissime in questi giorni - scrive il segretario dimissionario dem  -  Mi scuso se non riuscirò a rispondere a tutti uno per uno come vorrei", scrive Matteo Renzi nella enews. "Paolo però merita un’eccezione. È un ragazzo molto giovane, straordinario, che combatte contro la Sla", spiega.
E pubblica la lettera in cui il suo sostenitore lo invita a "ritirare le dimissioni" e gli domanda: "Ma perché ti sei preso delle responsabilità che tu non hai? Guai a te - scrive Paolo - se la dai vinta a quei franchi tiratori dei finti amici, che pur di fare un dispetto al comandante della nave, hanno forato lo scafo, dimenticandosi che c’erano a bordo anche loro. Fai pulizia in casa, caccia via chi non ti merita e poi vedrai".
"Ecco - scrive Renzi - la mia risposta". "Caro Paolo, mi dimetto da segretario del Pd come è giusto fare dopo una sconfitta. Io non mollo, ma soprattutto non mollare tu! A tutti quelli che mi hanno scritto chiedendomi di non mollare rispondo nello stesso modo".
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CORRIERE.IT –
Orlando: «Una cretinata pensare di fare a meno di Renzi»Non avviene il processo a Renzi, in direzione Pd, da parte della minoranza: ma tutti gli avversari del segretario, a partire dall’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, mettono agli atti che per la sconfitta ci sono «responsabilità diverse». «Evitiamo strategie maoiste: non credo che nel partito si possa fare a meno di ciò che ha rappresentato Renzi in questi anni, sarebbe una cretinata. Ma non penso neanche che qualcuno possa pensare che mentre qualcuno si carica il peso della transizione, si defila e spara sul quartier generale, secondo una strategia inaugurata dal presidente Mao Tze Tung», dice Orlando. Che poi fa autocritica: «Non avevamo una direzione di marcia», dice. «Di fronte alla paura del futuro abbiamo raccontato il passato». E quindi non vanno sottovalutate le esigenze degli elettori di M5S: «Non dileggiare la disperazione di chi va al Caf per chiedere il modulo per il reddito di cittadinanza», dice Orlando. L’ex ministro della Giustizia sostiene Martina ma chiede «garanzie»: «Penso che Maurizio debba avere il nostro sostegno e incoraggiamento. Bene avviare una fase costituente. Chiediamo delle garanzie, non vogliamo damnatio memoriae di nessuno, ma che si usino metodi diversi rispetto al passato. Evitiamo di ridurre tutto a un tema di leadership». È disposto anche a sciogliere ciò che resta della sua corrente, Orlando, in nome dell’unità.
Martina: «Tocca a Salvini-Di Maio»Detta la linea del Pd il vicesegretario Maurizio Martina nella sua relazione iniziale della direzione nazionale: «Alle forze che hanno vinto diciamo una cosa sola: ora non
avete più alibi. Ora il tempo della propaganda è finito. Lo dico in particolare a Lega e Cinque Stelle: i cittadini vi hanno votato per governare, ora fatelo. Cari Di Maio e Salvini prendetevi le vostre responsabilità». Il Pd? Resterà all’opposizione, continuando a servire i cittadini dal ruolo di «minoranza parlamentare». «Non cerchiamo scorciatoie o capri espiatori a una sconfitta netta e inequivocabile che ci riguarda tutti, ciascuno per la propria responsabilità, e da cui tutti dobbiamo imparare molto», sottolinea Martina.
Ma la rivincita già paventata dal segretario Matteo Renzi è vicina: «So che possiamo farcela. So che possiamo lavorare alla nostra riscossa, vi chiedo di continuare con coraggio, insieme», dice il vice del Pd rivolgendosi alla direzione nazionale e indicando la strada:«Apriamo subito le nostre sezioni, ascoltiamo iscritti ed elettori, chiamiamoli a raccolta, riflettiamo con loro. Ripartiamo dal basso e dal nostro popolo. Abbiamo seimila circoli, realizziamo seimila assemblee aperte tra venerdì, sabato e domenica prossimi». Ma si riparte anche da chi, come Nicola Zingaretti, ha vinto «con un risultato molto significativo»; chi, come Giorgio Gori, ha combattuto «una battaglia assai difficile»; chi, come Paolo Gentiloni, ha garantito «impegno costante». Martina sa che ora il suo ruolo sarà importante e delicatissimo: il suo intento è quindi quello di guidare il partito nei prossimi passaggi «con il massimo della collegialità e con il pieno coinvolgimento di tutti, maggioranza e minoranze». Il primo appuntamento è l’Assemblea nazionale di aprile, quando, secondo Martina, anziché avviare il congresso e le primarie il Pd dovrebbe dar vita a una Commissione di progetto per una fase costituente e riorganizzativa. Quanto alle presidenze delle Camere, «noi richiamiamo le forze politiche, e prima di tutto chi ha vinto, al dovere di garantire che questi ruoli siano affidati a figure autorevoli ed equilibrate in grado di rappresentare pienamente gli interessi collettivi secondo la Costituzione», dice Martina.
Al via direzione, Orfini legge lettera dimissioni RenziIl presidente del Pd Matteo Orfini apre con la lettura della lettera di dimissioni diOrfini (Ansa)Orfini (Ansa)Matteo Renzi la direzione nazionale del Partito democratico. Ecco il testo: «Preso atto dei risultati elettorali rassegno le mie dimissioni. Ti prego di convocare l’Assemblea, in quella sede spiegherò le ragioni delle dimissioni». Orfini ha poi spiegato quali saranno i prossimi passi: «Di fronte alle dimissioni abbiamo una procedura fissata dallo statuto: il vice segretario assume la gestione politica e il presidente ha un mese di tempo per convocare l’assemblea nazionale. Non possiamo derogare da questa procedura ed è quella che abbiamo deciso. L’unica variabile è sulla data di convocazione», che potrebbe slittare di qualche giorno vista la possibile concomitanza delle consultazioni.
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GOFFREDO DE MARCHIS, LA REPUBBLICA –
I 1.547 giorni di Matteo Renzi alla guida del Partito democratico finiscono oggi con le dimissioni formali. Era l’8 dicembre del 2013 quando vinceva le primarie da segretario con il 68 per cento (e una settimana dopo veniva ufficialmente insediato). Era il 30 aprile del 2017 quando faceva il bis, dopo la sconfitta al referendum, con il 69 per cento. Il leader più longevo della breve storia del Pd (appena 10 anni). Eppure l’impressione è che abbia consumato un patrimonio di fiducia, di voti e di credibilità in un baleno, con la velocità di un’immagine futurista. Ma è questo il suo passo, il ritmo di chi procede pensando sempre «mi gioco l’osso del collo», una delle sue espressioni preferite.
Quest’ansia di correre, di consumare tutto e subito dev’essergli venuta un anno prima del suo trionfo personale come segretario. Pochi giorni dopo la sconfitta del 2012 contro Bersani, Renzi si era rintanato nella sua stanza a Palazzo Vecchio, quella del sindaco. Aveva un’aria mogia e una brutta ustione sulla mano. «Mia moglie ieri sera è uscita con le amiche. Ho cucinato io per i ragazzi. Ho tirato fuori una teglia dal forno e mi sono bruciato. “Babbo, la cena è cattiva”, hanno detto i bambini. Poi abbiamo visto la partita della Fiorentina in tv. È l’unico momento in cui sono autorizzati a dire le parolacce».
Il rottamatore è stato rottamato. Pensava che tutto fosse perduto, che il Pd avrebbe vinto le elezioni del 2013 a mani basse e a lui non avrebbe mai più toccato palla. «Mi ricandiderò a sindaco e ho già un accordo per fare lo speaker su Rtl 102,5», diceva con il muso lungo guardando al futuro. Invece passano dodici mesi ed è il leader del Pd. Ne passano quindici e arriva a Palazzo Chigi. La sua carriera politica è impressionante nell’Italia delle classi dirigenti immobili. Pari solo a quella di Berlusconi, ma con un background molto più debole e senza tv. Fa tutto a modo suo. La sconfitta del 2012 gli ha insegnato che non bisogna mai smettere di essere se stessi. Brucia le tappe, viene dal nulla ed è quanto più lontano ci sia dall’elite, almeno all’inizio. «Siamo i fiorentini del contado», dice spesso parlando del gruppo di amici, figli di un dio minore che cercano di toccare il cielo. Lui è di Rignano, Lotti è di Montelupo, Boschi addirittura di Arezzo, lontana dal capoluogo.
Adesso sì, il rottamatore rottama. Non tratta con i padri nobili, anzi li snobba. Cambia schemi e volta pagina. Litiga con D’Alema, non telefona mai a Bersani, caccia Letta dalla presidenza del Consiglio, non ama Prodi (ricambiato), non consulta Veltroni. Si mette contro i grand commis dello Stato, accentra a Palazzo Chigi tutti i dossier a cominciare dall’economia con una squadra di fedelissimi: Gutgeld, Nannicini, Taddei. Fa le nomine negli enti pubblici e non usa il bilancino. Può soccombere da un momento all’altro, ha una schiera di nemici pronti a impallinarlo. Ma c’è un particolare: alle Europee del 2014 prende il 40,8 per cento, più di 10 milioni di voti. L’Italia è con lui, gli elettori del centrodestra ne sono affascinati, i giovani si riconoscono nel 39enne che guida lo Stato.
Quel risultato clamoroso lo porta a celebrare i 1.000 giorni di governo, quarto di sempre per durata negli anni della Repubblica (un mese prima delle dimissioni post referendum), a tacitare i dissensi, a dispiegare la sua azione di governo, ma anche a strafare, a straparlare, a stra-apparire. Oscar Farinetti, suo amico, un giorno gli dice: «Siamo diventati antipatici». I comunicatori del Pd, quando cercano una foto di Renzi con le persone comuni, rimangono di stucco: ci sono solo scatti con i vip o con i leader del mondo.
Provincialismo? Presunzione? Arroganza? «Meglio arroganti che simpatici, senza combinare nulla», risponde Renzi. Del partito si è sempre occupato pochissimo. Ha cercato di fare il segretario dal governo, con le sue riforme. Il Jobs act, la Buona scuola, le unioni civili, le leggi elettorale e costituzionale, l’abolizione dell’Imu, gli 80 euro.
Parole chiave, positive e negative: Leopolda, narrazione, modernità, Fassina chi, Enricostaisereno, «giovane, carismatico, innovatore» (pronunciate da Obama), agenda digitale, il treno del Pd, remuntada.Le dimissione dal governo segnano l’inizio del declino. Si scopre che Palazzo Chigi può fare a meno di Renzi. Il 18,7 del 4 marzo è il gong dell’ultimo round. Ma stavolta riparte dal Senato, non da un programnma alla radio.

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SILVIA BIGNAMI, LA REPUBBLICA –
Calano i voti, si riducono gli iscritti, ma si sgretola anche l’ossatura della militanza Pd: i circoli. Erano 7mila i circoli nell’era Bersani. Oggi il Nazareno — che solo al congresso di aprile contava 6.648 circoli — dà cifre oscillanti tra i 5800 e i 6mila. Nemmeno così male, sulla carta. Quando però il responsabile organizzazione Pd Andrea Rossi inviò un questionario ai segretari di circolo per conoscere lo stato del Pd sui loro territorio, soltanto 2mila circoli risposero. Gli altri 4mila restarono “ muti”. Non raggiunti o irraggiungibili. Comunque senza voce. [...]

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CARLO DI FOGGIA, IL FATTO QUOTIDIANO –

A voler fare una sintesi brutale, la situazione è questa: il Pd ha un bisogno disperato di evitare fratture precoci al suo interno; non conviene alle minoranze e neanche a Matteo Renzi, a cui serve tempo per far nascere quella “cosa al di fuori del Pd” di cui si parla al Nazareno. Nessuna conta interna, quindi, non ancora. L’ormai uscente segretario diserterà oggi la prima direzione post disastro elettorale. Il renziano presidente Matteo Orfini leggerà la lettera con cui il fiorentino si dimette. La guerra è così sui tempi di una reggenza indispensabile, terreno perfetto per le correnti Pd, strane creature che danno il loro meglio quando si sfalda una dirigenza. Con una novità non da poco: chi ha perso controlla gran parte di un gruppo parlamentare balcanizzato.

Il partito si affida al vicesegretario Maurizio Martina, che oggi leggerà la relazione sulla disfatta di cui pure è stato artefice in tandem con Renzi. Lo statuto gli consegna il ruolo di reggente temporaneo. La direzione, 200 anime in ebollizione, convocherà per aprile l’assemblea nazionale. Il diktat renziano – gentilmente recapitato ieri da Orfini a In Mezz’ora (Rai3) – è che sia l’assise dei mille, che Renzi domina, a eleggere il nuovo segretario di transizione.

Niente primarie, dunque, sul modello di Guglielmo Epifani che traghettò il partito per un anno nel post Bersani. La guerra è, come detto, sui tempi, e a cascata sul nome. In molti, da Andrea Orlando a Michele Emiliano, vogliono che la direzione, e poi l’assemblea dettino anche i tempi per l’apertura della fase congressuale, magari in autunno o nel 2019 (altrimenti si può arrivare fino al 2021).

A Matteo Renzi, che perde pezzi tra dirigenti e fedeli, ma che controlla metà della direzione e il 60% dei parlamentari, serve tempo. I renziani, Orfini in testa, vogliono una transizione guidata da Graziano Delrio. Il ministro dei Trasporti per ora prende tempo, ben sapendo di non avere l’appoggio di Emiliano e soprattutto di Dario Franceschini, monumento equestre al tatticismo da corrente e azionista di peso nel partito, che spinge per Martina, considerato un traditore dai renziani ma che ha il nulla osta della minoranza. Poi ci sono quelli che – come Nicola Zingaretti – si candideranno solo alle primarie. Nel breve sembra invece probabile che il reggente Martina dia vita a una nuova segreteria “collettiva”, aperta a tutte le anime del partito in subbuglio. Per impedirlo i renziani sarebbero allo scontro in direzione e non sarebbe una grande idea visto che le minoranze (Orlando, Emiliano, Cuperlo) e le forze dei cosiddetti “governativi” (Franceschini, Gentiloni, Minniti) sommano a quasi metà del “parlamentino” dem.

La guerra per bande sui nomi ha poi il suo prologo nelle scelte, per così dire, di campo, visto che l’assemblea si terrà dopo l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, la nomina dei capigruppo e il primo round di consultazioni al Quirinale. Al momento c’è solo Emiliano a proporre un appoggio esterno ai 5Stelle. Una mossa in questa direzione sarebbe l’elezione di un esponente Pd alla presidenza della Camera con l’appoggio del M5s. Lo scenario peggiore per Renzi, al punto che ieri Orfini è stato costretto a chiudere subito all’ipotesi avanzata in mattinata da Emiliano: “Non ci sono le condizioni.

È legittimo e ragionevole che Lega e M5S si dividano le presidenze. Se il Pd desse l’appoggio a un governo 5Stelle sarebbe la sua fine”, ha spiegato il presidente del Pd. Poi l’affondo: “Non si dimette solo Renzi, ci consideriamo tutti dimissionari”. Eppure nel partito sono in pochi a crede all’uscita di scena del fiorentino. Secondo Emiliano “Renzi studia la rivincita. Ha fatto una legge elettorale dove vince chi arriva terzo in un sistema tripolare. Ha vinto in realtà e può determinare il governo”. È, forse, l’unica certezza nell’ultima pochade del Partito democratico: le minoranze possono sopravvivere a cinque anni di opposizione, il fiorentino e il sistema di potere che ha messo in piedi no.



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AGI.IT –

Con la sconfitta alle elezioni del 4 marzo e le conseguenti dimissioni di Matteo Renzi da segretario del Partito Democratico, i dem sono chiamati a decidere il percorso che li porterà ad esprimere il nuovo leader. Un percorso codificato dallo statuto del partito, che ne parla al Capo II, "Formazione dell’indirizzo politico, composizione, modalità di elezione e funzioni degli organismi dirigenti nazionali", articolo 3, "Segretario o Segreteria Nazionale".

Chi è e cosa fa il segretario Il Segretario nazionale, viene sottolineato, rappresenta il Partito, ne esprime l’indirizzo politico sulla base della piattaforma approvata al momento della sua elezione ed è proposto dal Partito come candidato all’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri. Infine, il Segretario nazionale è titolare del simbolo del Partito Democratico e ne gestisce l’utilizzo, anche ai fini dello svolgimento di tutte le attività necessarie alla presentazione delle liste nelle tornate elettorali.

Dimissioni del segretario Se il Segretario cessa dalla carica prima del termine del suo mandato, l’Assemblea può eleggere un nuovo Segretario per la parte restante del mandato ovvero determinare lo scioglimento anticipato dell’Assemblea stessa. Se il Segretario si dimette per un dissenso motivato verso deliberazioni approvate dall’Assemblea o dalla Direzione nazionale, l’Assemblea può eleggere un nuovo Segretario per la parte restante del mandato con la maggioranza dei due terzi dei componenti.

I precedenti di Franceschini e Epifani È quanto accaduto con le elezioni di Dario Franceschini, prima, e Guglielmo Epifani poi. L’attuale ministro dei Beni Culturali, fu eletto segretario dall’Assemblea il 21 febbraio 2009 con 1047 preferenze, dopo le dimissioni di Walter Veltroni, sconfitto alle regionali in Sardegna. Per Epifani si parlò impropriamente di ’reggente’ del Partito Democratico, figura non prevista dallo Statuto. L’ex segretario della Cgil, infatti, fu eletto dall’Assemblea l’11 maggio 2013, dopo le dimissioni di Bersani che non era riuscito a formare il governo in seguito alla cosiddetta "non vittoria" alle elezioni politiche. Epifani fu eletto con 458 voti a favore su 534 votanti, pari all’85,8 per cento del totale. In entrambi i casi, le segreterie durarono lo spazio di pochi mesi: da febbraio ad ottobre 2009, Franceschini; da maggio a dicembre 2013 Epifani.

Elezione del nuovo segretario Al fine di eleggere il nuovo segretario, dunque, il Presidente del partito, in questo caso Matteo Orfini, convoca l’Assemblea per una data non successiva a trenta giorni dalla presentazione delle dimissioni. Nel caso in cui nessuna candidatura ottenga l’approvazione della predetta maggioranza, si procede a nuove elezioni per il Segretario e per l’Assemblea. Il Segretario nazionale in carica non può essere rieletto qualora abbia ricoperto l’incarico per un arco temporale pari a due mandati pieni a meno che, allo scadere dell’ultimo mandato, non eserciti la funzione di Presidente del Consiglio dei Ministri per la sua prima legislatura. In tal caso il mandato è rinnovabile fino a che non ricorrano i limiti alla reiterabilità dei mandati nella carica di Presidente del Consiglio. 

Il parlamentino dem si riunisce quindi per decidere il percorso da intraprendere dopo la sconfitta alle elezioni del 4 marzo. Ma, soprattutto, scegliere tra due opzioni: segretario eletto in assemblea ad aprile o segretario eletto alle primarie nel 2019? La prima opzione, per la quale si schiera la maggior parte del gruppo dirigente, darebbe al Pd un segretario ’a tempo’, il cui mandato scadrebbe tra un anno, ma forte della legittimazione dei delegati dem. La seconda opzione prevede un traghettatore, individuato nel vice segretario Maurizio Martina che vinse le primarie assieme a Matteo Renzi, per guidare il partito fino al congresso del 2019. L’esito è incerto perché le correnti, ’congelate’ con il congresso del 2017, sono in fibrillazione e sono molti i riposizionamenti. 

Cosa è e a cosa serve il parlamentino dem La Direzione nazionale del Pd è composta da 120 membri membri eletti dall’Assemblea nazionale, con metodo proporzionale, ed è l’organo di indirizzo politico del partito. Le decisioni vengono assunte attraverso il voto di mozioni, ordini del giorno, risoluzioni politiche e svolge la sua funzione di controllo attraverso interpellanze e interrogazioni al segretario e ai membri della segreteria. Ogni riunione si svolge su un ordine del giorno a cui fa seguito una serie di interventi e, solitamente, il voto finale sulla relazione del segretario o su eventuali mozioni presentate. La vita e le funzioni del parlamentino dem sono regolate dall’articolo 8 dello Statuto del Pd. Oltre ai 120 componenti eletti dall’Assemblea nazionale, fanno parte di diritto della Direzione il segretario; il presidente dell’Assemblea nazionale; i vicesegretari; il tesoriere; il massimo dirigente dell’organizzazione giovanile; i Presidenti dei gruppi parlamentari italiani ed europei; i segretari regionali.

La mappa della direzione Le primarie del 2017 video trionfare Renzi con il 69,17% dei voti. Secondo arrivò il ministro della Giustizia Andrea Orlando con il 19,96%, terzo il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano con il 10,87%. Percentuali che determinano anche il numero dei membri di ciascuna mozione in direzione, più i membri di diritto. La suddivisione in direzione era di 84 componenti per l’ex premier, 24 per Andrea Orlando e 12 per Michele Emiliano. C’è da sottolineare, tuttavia, che tra i componenti della direzione che fanno parte della maggioranza ci sono anche quelli che fanno riferimento a correnti come Areadem, di Dario Franceschini, Sinistra è Cambiamento, di Maurizio Martina, e l’area guidata dal presidente del partito, Matteo Orfini.