Libero, 10 marzo 2018
Il sale fa bene o male? Entrambe le cose sono vere
È buono, dà sapore, ma se non ci si sta attenti può mettere a rischio la nostra salute. Il sale va davvero usato, è il caso di dirlo, cum grano salis: con criterio, con attenzione, con intelligenza. È questo il senso di un piccolo, scorrevole e interessante libro che Riccardo Paloscia, medico gastroenterologo con mezzo secolo d’esperienza e 30 anni di attività al San Camillo di Roma, ha dedicato ai bianchi granelli: «Nostro sale quotidiano», 131 pagine dell’Editrice Silvio Pellico, con qualche bella foto e molte piccole chicche e curiosità. Il dottor Paloscia parla
chiaro: il sale può far male, se usato nel modo sbagliato. Di sale si può anche morire, nei casi peggiori. Ma nessuno che lo usi bene ne avrà danno. E Paloscia ce lo spiega attraverso un lungo dialogo, vagamente platonico, con una signora. Una signora che non è una persona qualunque: è la moglie di un suo paziente che soffre d’ipertensione. L’ipertensione è la chiave di tutto quanto: «L’eccessivo uso di sale stimola il sistema nervoso simpatico, e lo induce a produrre una quantità maggiore di adrenalina. Questa, a sua volta, provoca una costrizione maggiore delle arterie, che porta all’ipertensione». Eccola lì, la “cattiveria” del sale, che il medico spiega alla signora, ormai rassegnata alla passionaccia di suo marito per la saliera e per i cibi supersalati anche al di là di ogni reale necessità.
NELLA STORIA
Il libro non è comunque un oscuro formulario di indicazioni mediche e dietologiche. Paloscia, nei lunghi anni di ospedale, come spiega lui stesso, sviluppò una curiosità per il sale che lo spinse a studiarlo in molti dei suoi aspetti, non solo chimici o salutistici ma anche storici, culturali, gastronomici, persino religiosi. Proprio tutte queste sfaccettature vengono esaminate nella lunga chiacchierata con la signora, che è ben curiosa di ascoltare le gustose (è il caso di dirlo) divagazioni, punteggiandole con continue domande.
Come molti già sanno, ma come Paloscia sinteticamente ricorda, il sale fu importantissimo fin dall’antichità: a causa di esso i popoli entrarono in guerra, per dire. E non soltanto in tempi giurassici: la «Guerra del sale» del 1540 in Italia fu un vasto moto di malcontenti del circondario di Perugia nei confronti dello Stato della Chiesa durante il pontificato di Paolo III. Il sale, sotto quel pontefice, era arrivato a costare veramente troppo, oltre a essere lautamente tassato. Così, i perugini presero le armi. Nel frattempo, poiché non potevano morire di fame, iniziarono a impastare il pane senza usare il sale. Come finì, è noto: gli umbri persero la battaglia e l’indipendenza. Il pane “sciapo”, viceversa, da quelle parti si mangia ancora oggi.
TANTE RICETTE
Gli umbri, a ben vedere, fecero ciò che Riccardo Paloscia consiglia: ridussero la propria dose di sale giornaliera. Come spiega l’autore, «è necessario consumare meno di 5 grammi di sale al giorno per tenere lontano il rischio di ipertensione», mentre in Italia se ne consuma più o meno il doppio e talvolta perfino il triplo. Ma come fare ad abbassare la dose? Col ragionamento: «Carne e pesce possiedono abbastanza sale, per cui quando prepariamo gli spaghetti con il tonno è inutile mettere il sale nell’acqua della pasta, perché il tonno comunque conservato è già salato». Si tratta dunque di usare la testa, e si eviteranno tremende diete di roba insipida. Nell’appendice, Paloscia propone alcune «Ricette di controcucina senza sale» (o con pochissimo sale) che non suonano propriamente desolanti o quaresimali: panzanella di pane secco, sedano, pomodorini, cipolla, basilico, aceto balsamico e olio crudo; alici infornate e poi condite con cipolla rossa e olio al peperoncino; rigatoni al pesto di mentuccia; spaghetti con le vongole; spaghetti alla carbonara; bollito di manzo con limone e olio. Un po’ di sale comunque si può usare anche qui. E Paloscia raccomanda: che sia dell’Himalaia. Il perché è presto detto.
L’autore dedica vasta parte del libro, forse la più interessante, a illustrare al lettore le gioie dei tanti sali da cucina che da qualche anno si trovano con facilità nei negozi gourmet. Ed ecco cosa ci racconta, tra le altre cose, sul sale rosa dell’Himalaia: «Possiede un sapore delicato che non copre i cibi poiché ha scarso contenuto di cloruro di sodio e di iodio, non provoca ritenzione idrica come altri sali e soprattutto sembra non determinare rischio di ipertensione. Il suo gusto morbido e poco aggressivo non ostacola i processi di assorbimento intestinale dei cibi. Inoltre sembra influire poco sulla funzionalità renale e sui processi di invecchiamento, e sul riassorbimento osseo». Mica male. Apprendiamo anche altre notizie sui sali famosi: il sale dolce di Cervia si chiama così perché la raffinazione lo priva di retrogusti amari, mentre il fleur de sel di Guerande (Bretagna) è indicato anche in caso di ipertensione, perché povero di sodio e ricco, invece, di altri minerali, come il potassio. È proprio vero: non esiste il sale, esistono i sali. E prendendone pochi ma buoni, si può vivere senza farne a meno.