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 2018  marzo 10 Sabato calendario

Più reality che talent, troppo costruito: «MasterChef» è stanco

È stata forse la peggior edizione di «MasterChef», quella appena conclusa. Stiamo parlando di cucina televisiva, di format, di interpreti. Per dirne una: bagnati da molte lacrime, in finale sono andati due «casi umani» (sempre secondo la logica televisiva). Ha vinto Simone, un ragazzo cresciuto senza genitori e senza molte possibilità di uscire dal natio borgo selvaggio. Ha perso Kateryna, ucraina, in Italia per amore, laurea in ingegneria elettronica, disoccupata. E dire che, durante la prova finale, i giudici sembravano parteggiare per lei (Sky Uno, giovedì, ore 21.15).
«MasterChef» è stanco: l’innesto di Antonia Klugmann al posto di Carlo Cracco ha funzionato così così. Cracco giocava (e gli veniva bene) il ruolo dell’antipatico; si vede che gli autori hanno chiesto alla Klugmann di recitare la medesima parte. Antonino Cannavacciuolo è più bravo all’esterno, quando sfascia ristoranti; in studio appare contratto, impacciato, sembra un cinghialone vestito a festa. Per non parlare di Bruno Barbieri, sempre più intento a costruire il suo personaggio, più preparato ormai sui vestiti da indossare che sui cibi (nell’ultima puntata esibiva un’imbarazzante camicia di pizzo bianco). L’unico che si salva è il non stellato, Joe Bastia-nich: da quando ha trovato l’America in Italia è il solo che dimostri di aver senso dello spettacolo, capacità di stare al centro del palcoscenico.
«MasterChef» è stanco: troppo scritto (ma perché far parlare i giudici come libri stampati? Non potrebbero parlare come mangiano?), più reality che talent, troppo costruito. Un esempio: quando i giudici assaggiano i piatti, capita spesso di vederne uno con in mano un piatto quasi vuoto e, subito dopo, di scorgerne un altro con il piatto ancora tutto guarnito. «MasterChef» ha scelto una soluzione narrativa in cui i giudici (e soprattutto gli chef ospiti) perdono di autorevolezza, rischiano di diventare macchiette.