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 2018  marzo 10 Sabato calendario

«Tra di noi galeotto fu Dante». Intervista a Ludovica Ripa di Meana

MILANO Una fotografia li ritrae fusi in un abbraccio, come due figure scolpite in un unico blocco di marmo.
Vittorio Sermonti era arrivato alla fine del viaggio, dell’avventura che ha segnato la vita sua e di chi l’ascoltava in piazza, la lettura della Commedia con la sua voce fonda e perfettamente intonata alla partitura verbale del poema.
Con chi condividere quel traguardo se non con la signora molto amata che l’aveva spinto a mettersi in cammino? «Sì, Dante ha avuto una parte importante nella nostra storia d’amore», racconta ora Ludovica Ripa di Meana che ha vissuto per oltre trent’anni al fianco dello scrittore. «Tutto cominciò da una mia richiesta privata. Eravamo in vacanza a Praiano, in casa di mia sorella, quando gli chiesi di leggermi i primi canti dell’Inferno. La sua voce, i commenti profondi e a tratti ironici, l’esecuzione dei versi sobria e musicale: trasecolai. E allora cominciai a insistere: perché solo per me e per gli altri no?». Il resto è una storia nota: la lettura radiofonica integrale, il suggello di critici esigenti come Gianfranco Contini e Cesare Segre, le piazze e i teatri affollati, in Italia e nel mondo. E domani a Tempo di libri Ludovica presenterà la registrazione del racconto-commento dell’Inferno, raccolta in un audiolibro da Emons (seguiranno Purgatorio e Paradiso).
Che cosa ha rappresentato Dante nella vostra vita?
«Ci ha spalancato il mondo, arrivando a ibridare il nostro quotidiano. Come se ci avesse dato un nuovo sapere di vita».
Anche nell’amore?
«Nell’indicibilità dell’amore ma anche nell’incandescenza del dolore. Non c’è aspetto del nostro stare insieme che non ne sia stato contagiato. Ogni sera Vittorio mi leggeva un canto della Commedia e il suo commento, mai oscuro né noioso. Era come vivere in una dimensione altra, come stare dentro la grandezza. Anche accorgersi delle proprie miserie è un’agnizione che ti abilita alla grandezza, ossia all’onestà, alla pietà, alla magnanimità verso gli altri. Potrà sembrare bizzarro, ma anche quando ci occupavamo d’un figlio che non voleva studiare cercavamo di farlo con grandezza».
Eravate già adulti quando vi siete innamorati.
«Sì, avevamo superato entrambi il mezzo secolo. In realtà a Roma ci si conosceva fin da ragazzi attraverso amicizie comuni. Poi l’avrei rivisto nel palazzo della Rizzoli, dove io lavoravo all’Europeo e lui veniva a trovare la sua ex moglie Samaritana Rattazzi. Non mi era simpatico».
Perché?
«Si dava delle arie. Un giorno un amico mi incoraggiò a leggere il suo romanzo Il tempo fra cane e lupo.
“Va bene, darò uno sguardo”, dissi un po’ distratta. “Sarà pure un bravo scrittore, ma quanta spocchia”.
Lessi e restai ipnotizzata. Una sera glielo dissi e tutto cominciò.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse…».
Capì subito che stava succedendo qualcosa di importante?
«Sì, immediatamente. Era come se ci fossimo cercati fin dalla nascita. E finalmente scovati».
Cosa intende?
«Ciascuno di noi ha capito cosa voleva solo dopo aver incontrato l’altro. È come arrivare al punto esatto in cui si coincide con se stessi. L’io fa una fatica bestiale a vivere. Lo si vede negli adolescenti così tormentati perché stanno cercando di sapere chi sono. E i dolori e le insicurezze derivano da questa ricerca spasmodica di coincidere con se stessi».
E questo cosa ha comportato?
«Entrambi siamo riusciti a entrare in contatto con il nostro linguaggio più profondo, con la nostra arte.
Vittorio era molto più attrezzato di me, un professore amato e un coltissimo scrittore già riconosciuto. Ma ha coinciso con se stesso quando sono arrivata io. Ero l’altro che gli serviva per sprigionare il talento».
Cosa ha trovato in lei?
«L’ascolto. Ero dotata di un ascolto prodigioso e altrettanto artistico».
È quella “carità” che una volta Contini le attribuì?
«Forse sì. In un libro-intervista a lui dedicato, Contini aveva avvertito il mio amore, ossia la mia attenzione per la vita dell’altro. Avevo solo la quinta ginnasiale ma una passione bruciante per la letteratura. Ero stata redattrice di Bassani e di Vittorini. E quando ho incontrato Vittorio ho potuto esprimere per intero questo intelletto d’amore, che con lui significava anche accoglienza sessuale. La donna è “lo vas d’elezione”...».
«Ci siamo amati sempre di più, sempre meglio, sempre più fusi e liberi». 
Lei lo scrive nella introduzione a “L’ombra di Dante”, una raccolta di scritti di Sermonti pubblicati di recente da Rizzoli. Ma la fusione ammette la libertà?
«Tengo molto a quel libro perché è il nostro ultimo lavoro insieme. Sì, la fusione può imprigionare. Ma nel nostro caso l’amore ha creato l’ermafrodito. Vittorio ed io abbiamo fatto l’esperienza di essere due in uno. Mi chiamava a ogni pensiero che affiorava nella sua mente. E insieme davamo compiutezza a una materia ancora inespressa. C’è un verso del Paradiso che racconta il nostro amore: “S’io m’intuassi come tu ti inmii…”».
Come le venne in mente di farsi leggere la “Commedia”?
«Dante era già molto presente nei nostri discorsi. Fin da bambino Vittorio l’aveva ascoltato dal padre, nella casa di Santa Marinella, e io da ragazzina ero rimasta colpita da una piccola edizione conservata nella biblioteca di mio nonno. Sì, il nostro era un destino già segnato.
Dopo aver sentito la sua lettura – era l’estate dell’85 – decisi che non poteva rimanere una faccenda privata. “Devi proporla alla radio!”.
“Ma no, ci hanno provato tante volte”. “Chiedi a Contini la supervisione”. “Ma figurati se me la dà…”. Si ritraeva sempre».
«Gli uomini hanno paura di sentirsi dire no, così sono meno temerari delle donne. Se io ricevo un rifiuto, mi dispiace ma non ne resto offesa».
Questo implica sentirsi sicuri interiormente. Forse lei lo era più di Sermonti?
«Non lo so. Sono certa però che siamo tutti pari. Non eguali, ma pari. Tutti nasciamo e tutti moriamo, più parità di questa?».
La registrazione integrale della Commedia fu fatta a vostre spese.
«Sì, siamo diventati poveri ma senza alcun rimpianto. Vittorio aveva compiuto ottant’anni ed era molto triste. “Picchio, che c’è?”, gli domandai. “Sto pensando che del mio lavoro non resterà la cosa più importante: la voce”. Gli proposi di finanziare noi la registrazione. Non ci è rimasto nulla, solo i suoi libri e i miei pullover. Ma eravamo contenti così».
Sermonti era molto interessato al rapporto tra vocalità e scrittura. Cosa cercava?
«Cercava se stesso. Lui diceva che la nostra voce la sa molto più lunga di noi. E poi era convinto – insieme a George Steiner – che i classici sopravvivono grazie al canto che li ha prodotti».
Cosa significa per lei convivere con la sua voce?
«Una terribile emozione. E un terribile privilegio. La voce di Vittorio è un assoluto».
Lui disse una volta che eravate ammirati e grati dell’amore l’uno per l’altro.
«Il giorno prima di essere ricoverato in ospedale, cercò di tirarsi su dal letto. Faceva fatica con il respiro.
“Sei stanco?”. “Sì, tanto”. Mi guardava, come sorpreso: “Ti amo.
Ma non è incredibile amare a questa età? E in questo stato…”. Vittorio si stupiva dell’intensità del nostro amore».
Con lei, Ludovica, era sicuro di andare sereno verso la morte.
«Ma Vittorio non aveva paura di morire, come non ce l’ho io. Anche su questo terreno il poema sacro è stato fondamentale».
Dove pensa di rincontrarlo?
«Non sono abbastanza grande per poter rispondere. Certo Vittorio continua a essere. E immagino che succederà anche a me. Saremo calamitati l’uno verso l’altro. Non importa dove. L’importante è ritrovarsi».