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 2018  marzo 10 Sabato calendario

Se l’aspirante maestro sbaglia il congiuntivo

Concorso sì, ma di colpa. Viene naturale pensarla così quando arrivano notizie a proposito di un concorso pubblico che ha dato risultati duplicemente desolanti: per il livello dei concorrenti ma anche per vizi e pasticci formali commessi da chi lo ha gestito. Il tutto in Friuli e in Venezia Giulia, due fra le poche zone d’Italia non soggette a stereotipi su ignoranza, disorganizzazione e cialtroneria diffusa.
Se ne parla oggi ma si tratta di un bando di due anni fa e riguarda aspiranti maestri d’asilo. Per 189 posti messi in concorso si sono presentati 700 candidati, molti dei quali già impegnati come precari. Le cronache parlano di esiti disastrosi alla prova scritta: «ha», «hanno» scritti senz’acca, come fossero la preposizione «a» e il sostantivo «anno»; «un» senza apostrofo davanti a vocaboli al femminile, con vocale iniziale; congiuntivi e doppie eseguiti ad libitum; abbreviazioni più comuni in un post su Facebook che in una prova scritta concorsuale.
Cose da pazzi? Cose da farci disconoscere i nostri simili e indurci piuttosto a emigrare? Non esageriamo. Questi errori sono accomunati da due caratteristiche.
La prima è che si tratta di errori banali, cioè poco significativi. La seconda è che si tratta di errori che vengono censurati bruscamente da chi viene a conoscerli, come fossero peccati magari non mortali ma certamente non veniali e tanto meno banali. A ben vedere, però, sono usi del tutto comuni in quel tipo di italiano svelto e disinvolto che si usa al computer e allo smartphone, che è come dire (piaccia o non piaccia) l’italiano più comune.
Nessuno che si senta portatore di un mandato supremo può censurare tali usi o ritenerli particolarmente minacciosi rispetto alle sorti del Paese. A maggior discolpa di chi li adotta si può aggiungere che questi candidati non proprio inappuntabili, anche se promossi, da maestri d’asilo non avrebbero alcuna responsabilità sulla competenza ortografica di quattrenni e cinquenni. I piccoli avrebbero tempo per imparare a servirsi delle forme più canoniche andando poi a scuola. E dunque? Davvero la competenza necessaria per accudire cuccioli umani sotto i cinque anni di età ha a che fare necessariamente con l’ortografia?
Si è subito pronti a stracciarsi le vesti.
Però peggio ci si sente venendo poi a sapere che il medesimo concorso potrebbe essere almeno parzialmente annullato poiché chi lo ha gestito ha fatto pasticci e si sono materialmente persi plichi che contenevano le cruciali corrispondenze fra i compiti e i candidati che li avevano svolti. Partono così i ricorsi, le deliberazioni, le commissioni, i pateracchi.
Allora parliamone, per una volta. È più grave una «a» senz’acca, un congiuntivo goffo, una «collaborazzione» scritta con due zeta, oppure lo smarrimento di una busta concorsuale? Lo strafalcione occasionale di un candidato o l’approssimazione operativa di un giudice? Chi può pretendere cosa da chi altro? Chi se la sente di scagliare prime pietre, nella certezza di poter garantire prestazioni e servizi inappuntabili? Chi se la sente di accampare criteri rigidamente meritocratici che vadano applicati non soltanto alle altrui persone ma anche a sé stessi? Qualcosa, in quest’epoca, in questo periodo, in quest’aria, ci ha convinti che chiunque può essere giudice di chiunque altro. La colpa non è mai in concorso. Però il caso Di Maio dovrebbe perlomeno convincerci che gli errori di grammatica sono rilevanti soprattutto in funzione di chi li compie. Quindi, se avete problemi di consecutio o anche solo di ortografia, non fate domanda per un posto all’asilo. È più facile che vi prendano a Palazzo Chigi.