la Repubblica, 10 marzo 2018
Il sogno del dittatore è la stretta di mani col presidente Usa. Ma deve meritarsela
Il presidente Trump ha accettato l’invito, estesogli da Kim Jong-un, di prendere parte a un summit. È un fatto sorprendente, ma anche una scommessa pericolosa e una pessima idea. Non posso credere di avere affermato quanto ho appena scritto. Per molti anni, durante numerosi viaggi in Corea del Nord, mi sono schierato a favore dei colloqui diretti tra Stati Uniti e Corea del Nord. Coinvolgere il Nord è meglio che bombardarlo, e se la scelta è tra dialogo e missili sono a favore del dialogo. Tuttavia, per organizzare un summit di successo occorre prepararlo con cura, assicurarsi che possa rappresentare un passo verso la pace e che si prefigga degli obietti che vadano oltre la semplice legittimazione del regime di Kim.
Sia Kim sia Trump sono uomini di spettacolo con una spiccata propensione verso tutto ciò che è teatrale e inaspettato.
Caratteristiche capaci di rendere elettrizzante qualsiasi summit, ma anche di far sì che le cose vadano per il verso sbagliato. È da anni che i leader della Corea del Nord sperano di vedersi riconosciuti rispetto e credibilità internazionali.
Vogliono essere trattati da pari dagli americani, ed è per questo che l’opportunità di mostrare Trump e Kim uno a fianco all’altro costituirebbe un trionfo per Pyongyang. È sconcertante constatare come Trump sia potuto passare dal minacciare di «distruggere completamente» la Corea del Nord (a settembre) e dall’affermare di avere un pulsante nucleare più grande di quello di Kim, a pianificare un incontro. La procedura, di norma, prevederebbe innanzitutto di negoziare le basi del summit e ci imporrebbe di tentare di ottenere tutte le concessioni possibili. In secondo luogo, dovremmo assicurarci che il summit contribuisca alla soluzione di obiettivi di maggiore respiro, come la la risoluzione della crisi nucleare. Ciò significherebbe innanzitutto inviare dei diplomatici a Pyongyang per capire che tipi di accordi potrebbero essere raggiunti, assicurarsi il rilascio dei tre americani detenuti in Corea del Nord e mandare nel Paese H.R.
McMaster, consigliere per la Sicurezza nazionale, o Mike Pompeo, direttore della Cia.
Nei mesi successivi, gli sherpa di entrambi i fronti preparerebbero il summit stabilendo quali potrebbero essere i risultati possibili.
Accettando di partire a maggio, Trump ha dunque rinunciato a un’importante leva di influenza e di potere negoziale.
In realtà, però, un summit tra Trump e Kim desta preoccupazione anche per il fatto che pur di raggiungere un accordo il presidente potrebbe accettare senza riflettere qualche proposta strampalata.
(“Ritirare le truppe Usa dalla Corea del Sud e da Okinawa?Nessun problema, a patto che voi ci costruiate un muro”).
Anche a Washington Trump ha preso degli impegni azzardati, obbligando poi i suoi collaboratori a spiegare che non intendeva dire quanto aveva detto. Ma prendere un impegno avventato o sciocco con la Corea del Nord sarebbe decisamente più problematico. L’imposizione dei dazi su acciaio e alluminio ha dimostrato che Trump non sempre si attiene al consiglio dei suoi collaboratori o riflette sulle proprie azioni. E la Corea del Nord rappresenta un problema ben più impegnativo.
Per Trump l’annuncio di un imminente viaggio presenta il vantaggio di distogliere l’attenzione dei media dalle notizie incentrate su un’attrice porno e sulle indagini in Russia.
Forse Trump ha riflettuto a fondo sul summit, o forse è semplicemente desideroso di distrarre gli americani.
Dobbiamo inoltre rassicurare i nostri alleati e partner in Asia, in particolare Corea del Sud e Giappone, riguardo al fatto che non siamo disposti ad abbandonarli pur di stringere un accordo con la Corea del Nord. Trump dovrebbe includere quei Paesi nelle discussioni e nella pianificazione del summit.
Certo, che Kim abbia esteso l’invito è incoraggiante. Così come è incoraggiante sapere che non obietta alla ripresa delle esercitazioni militari Usa e che pare pensi di sospendere i test missilistici e nucleari.
Proprio quest’ultimo è tema il più importante. La sospensione dei test potrebbe far spazio ad accordi. E tali accordi dovrebbero prevedere la rinuncia da parte della Corea del Nord al suo programma nucleare in cambio della fine delle sanzioni e di una normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Ma anche un impegno della Corea del Nord sul fronte dei diritti civili.
Sorge una domanda, ovvia: a Trump va forse riconosciuto il merito di aver indotto i nordcoreani a fare concessioni come quella di sospendere i test? Credo che la risposta sia «forse sì». E per due motivi.
Per cominciare, Trump ha intensificato le pressioni sulla Corea del Nord con più sanzioni e un ulteriore aiuto da parte della Cina. Lo scorso novembre, visitando la Corea del Nord, ho constatato che il Paese viveva in uno stato di evidente difficoltà.
Kim ha tentato di fare dell’innalzamento degli standard di vita un tratto caratteristico della sua leadership e le sanzioni hanno minacciato questo pilastro della sua legittimità.
In secondo luogo, il discorso di Trump riguardo agli attacchi militari potrebbero avere – o no scosso la Corea del Nord, ma di certo ha gravemente turbato la Corea del Sud. Che di conseguenza ha compiuto sforzi diplomatici per riavvicinarsi a Corea del Nord, la quale a sua volta ha promesso di sospendere i test.
Occorre dunque riconoscere qualche merito alla strategia di Trump. Anche se i motivi di scetticismo riguardo ai possibili esiti di questa faccenda rimangono moltissimi. Nessuno si è mai arricchito scommettendo sulla moderazione dei nordcoreani, e Kim potrebbe nutrire delle aspettative irrealistiche riguardo a quanto gli Stati Uniti sono disposti a concedere. Se Kim pensa che Trump accetterà di ritirare le truppe americane dalla penisola coreana il summit potrebbe, diciamo, andare in fumo.
Ancora non sappiamo realmente quali possano essere le aspettative di Kim e un summit fallito potrebbe innescare un riacutizzarsi delle tensioni su entrambi i fronti, facendosi finire peggio di come eravamo partiti.
Traduzione di Marzia Porta