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 2018  marzo 12 Lunedì calendario

1547 giorni vissuti pericolosamente vittorie e fallimenti del rottamatore

ROMA I 1.547 giorni di Matteo Renzi alla guida del Partito democratico finiscono oggi con le dimissioni formali. Era l’8 dicembre del 2013 quando vinceva le primarie da segretario con il 68 per cento (e una settimana dopo veniva ufficialmente insediato). Era il 30 aprile del 2017 quando faceva il bis, dopo la sconfitta al referendum, con il 69 per cento.
Il leader più longevo della breve storia del Pd (appena 10 anni).
Eppure l’impressione è che abbia consumato un patrimonio di fiducia, di voti e di credibilità in un baleno, con la velocità di un’immagine futurista. Ma è questo il suo passo, il ritmo di chi procede pensando sempre «mi gioco l’osso del collo», una delle sue espressioni preferite.
Quest’ansia di correre, di consumare tutto e subito dev’essergli venuta un anno prima del suo trionfo personale come segretario. Pochi giorni dopo la sconfitta del 2012 contro Bersani, Renzi si era rintanato nella sua stanza a Palazzo Vecchio, quella del sindaco.
Aveva un’aria mogia e una brutta ustione sulla mano. «Mia moglie ieri sera è uscita con le amiche.
Ho cucinato io per i ragazzi. Ho tirato fuori una teglia dal forno e mi sono bruciato. “Babbo, la cena è cattiva”, hanno detto i bambini.
Poi abbiamo visto la partita della Fiorentina in tv. È l’unico momento in cui sono autorizzati a dire le parolacce». Il rottamatore è stato rottamato.
Pensava che tutto fosse perduto, che il Pd avrebbe vinto le elezioni del 2013 a mani basse e a lui non avrebbe mai più toccato palla.
«Mi ricandiderò a sindaco e ho già un accordo per fare lo speaker su Rtl 102,5», diceva con il muso lungo guardando al futuro.
Invece passano dodici mesi ed è il leader del Pd.
 Ne passano quindici e arriva a Palazzo Chigi.
La sua carriera politica è impressionante nell’Italia delle classi dirigenti immobili. Pari solo a quella di Berlusconi, ma con un background molto più debole e senza tv. Fa tutto a modo suo. La sconfitta del 2012 gli ha insegnato che non bisogna mai smettere di essere se stessi. Brucia le tappe, viene dal nulla ed è quanto più lontano ci sia dall’elite, almeno all’inizio. «Siamo i fiorentini del contado», dice spesso parlando del gruppo di amici, figli di un dio minore che cercano di toccare il cielo. Lui è di Rignano, Lotti è di Montelupo, Boschi addirittura di Arezzo, lontana dal capoluogo.
Adesso sì, il rottamatore rottama. Non tratta con i padri nobili, anzi li snobba. Cambia schemi e volta pagina. Litiga con D’Alema, non telefona mai a Bersani, caccia Letta dalla presidenza del Consiglio, non ama Prodi (ricambiato), non consulta Veltroni. Si mette contro i grand commis dello Stato, accentra a Palazzo Chigi tutti i dossier a cominciare dall’economia con una squadra di fedelissimi: Gutgeld, Nannicini, Taddei. Fa le nomine negli enti pubblici e non usa il bilancino. Può soccombere da un momento all’altro, ha una schiera di nemici pronti a impallinarlo. Ma c’è un particolare: alle Europee del 2014 prende il 40,8 per cento, più di 10 milioni di voti. L’Italia è con lui, gli elettori del centrodestra ne sono affascinati, i giovani si riconoscono nel 39enne che guida lo Stato.
Quel risultato clamoroso lo porta a celebrare i 1000 giorni di governo, quarto di sempre per durata negli anni della Repubblica (un mese prima delle dimissioni post referendum), a tacitare i dissensi, a dispiegare la sua azione di governo, ma anche a strafare, a straparlare, a stra-apparire. Oscar Farinetti, suo amico, un giorno gli dice: «Siamo diventati antipatici».
I comunicatori del Pd, quando cercano una foto di Renzi con le persone comuni, rimangono di stucco: ci sono solo scatti con i vip o con i leader del mondo.
Provincialismo? Presunzione?
Arroganza? «Meglio arroganti che simpatici, senza combinare nulla», risponde Renzi.
Del partito si è sempre occupato pochissimo. Ha cercato di fare il segretario dal governo, con le sue riforme. Il Jobs act, la Buona scuola, le unioni civili, le leggi elettorale e costituzionale, l’abolizione dell’Imu, gli 80 euro.
Parole chiave, positive e negative: Leopolda, narrazione, modernità, Fassina chi, Enricostaisereno, «giovane, carismatico, innovatore» (pronunciate da Obama), agenda digitale, il treno del Pd, remuntada.
Le dimissione dal governo segnano l’inizio del declino. Si scopre che Palazzo Chigi può fare a meno di Renzi. Il 18,7 del 4 marzo è il gong dell’ultimo round. Ma stavolta riparte dal Senato, non da un programnma alla radio.