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 2018  marzo 12 Lunedì calendario

Quanto era bella l’arte italiana nell’ora più buia

Copertina dura telata nera, titolo a grandi caratteri incisi in rosso che la occupano tutta, 659 pagine di una sorprendente carta opaca molto leggera su cui le centinaia di foto risultano luminose, 15 saggi e 64 studi in inglese e poi in italiano, prima immagine a pagina intera, senza didascalia, quella celebre del 1934, in cui, in bianco e nero, Filippo Tommaso Marinetti in elegante completo nero, cravattino, baffetti, indica con un dito il piatto che una cameriera con crestina di pizzo sui capelli, segno di una condizione di sudditanza, sta svuotando; sullo sfondo, a colori, il dipinto di Boccioni Dinamismo di un calciatore, che viene dal MoMA di New York. Si parla raramente dei cataloghi delle mostre, come se fossero loro appendici ovvie di cui si potrebbe anche fare a meno: e se oggi qualche mostra può avere titoli pomposi e contenuti deludenti, capita anche che certi cataloghi siano talvolta sciatti e frettolosi. Ma Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918- 1943 che accompagna la mostra alla Fondazione Prada di Milano (fino al 25 giugno) è un’opera a sé, che arricchisce la mostra già ricca, quasi 700 opere: non solo è il suo affiancamento, ma il lungo racconto del suo percorso, dallo sviluppo dell’idea alla ricerca delle opere, sino alla inaugurazione, più di due anni di lavoro: e alla fine un’accurata, nuova, attualizzata storia italiana degli anni bui del fascismo e allo stesso tempo luminosi d’arte. Costi altissimi per tutto, in un campo in cui la cosa pubblica e i privati tendono a risparmiare il più possibile o addirittura a non fare. Invece a Germano Celant, curatore della mostra e del catalogo, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli hanno detto, «Pazienza, l’importante è che la qualità sia alta». Non c’è nessuna istituzione o amministrazione pubblica, non un ministero, non una banca, non altri privati che abbiano collaborato finanziariamente a questa iniziativa che il Financial Times ha definito “enorme, illuminante, erudita”. Non è stato facile anche ottenere le opere e il migliaio di documenti, ma poi con fiducia, istituzioni pubbliche, fondazioni, gallerie d’arte, archivi, biblioteche e famiglie di tutto il mondo hanno inviato le opere richieste: sei colonne fitte dei loro nomi occupano le prime pagine, stampate in caratteri molto piccoli, in rosso su fondo nero.
Prada e Bertelli, presidenti della Fondazione, scrivono in apertura del volume che il progetto si è concentrato sul ruolo dell’artista durante il fascismo in Italia, presentando insieme arte e politica. «È una mostra sul nostro passato, oggi necessaria, a causa delle similitudini tra il nostro passato e il presente… e necessaria per rendersi conto dell’umana debolezza di fronte al potere, che sia politico, economico o sociale». Non c’è il rischio di una apologia del fascismo esponendo e raccontando lo stretto connubio tra la quasi totalità dei nostri artisti e una dittatura che se ne serviva come mezzo di una propaganda martellante, lusingandoli, presenziando alle tante mostre di regime create per loro?
Mussolini, Hitler, Goebbels, Göring, il re e il suo erede, alti prelati, generali, ministri.
«Il dubbio l’abbiamo avuto, abbiamo temuto visitatori inopportuni, ma non ce ne sono stati. Sarà che l’arte in genere e pure quella promossa dal fascismo, non interessa ai fascisti di oggi». E adesso, dopo le elezioni, «la cultura si salva sempre, lo ha fatto anche in momenti molto drammatici».
Di solito le mostre nascono dalle opere d’arte, questa invece da vecchie fotografie dei luoghi in cui le opere, di Casorati o di Wildt, di Sironi o di Carrà e di tutti i nostri artisti dell’epoca, furono esposte nelle continue grandi mostre del regime, Biennali, Triennali, Quadriennali, o furono commissionate per adornare l’architettura monumentale e razionalista degli edifici pubblici: Celant ricorda che per la mostra gli furono offerti quadri importanti, per esempio un raro de Chirico, che dovette rifiutare perché appunto non esisteva la fotografia che mostrasse il luogo dell’esposizione, quindi il legame con il pubblico e con l’uso politico dell’arte. Queste fotografie ingigantite nelle proporzioni dei veri luoghi e vere mostre fasciste, ricostruiscono lo studio milanese di Mario Sironi e la sala di Carrà alla Biennale del 1929, il salone delle cerimonie della Triennale di Milano del 1933 con gli affreschi patriottici di Severini, la mostra futurista di aeropittori e aeroscultori alla Quadriennale di Roma del 1938.
E, se alla Fondazione le opere ottenute sono al posto mostrato dalle fotografie, nel catalogo sono a colori, tra tutte quelle, non ricuperate, in bianco e nero.
Sul catalogo le immagini prendono le distanze dalla storia, e parlano i documenti che conducono sino alla tragedia finale della guerra, dell’olocausto e della sconfitta.
L’ancoraggio storico delle opere e dei documenti spiega anche perché poi quel ricchissimo periodo, quegli artisti, quegli architetti, quei grafici, furono messi in ombra come secondari rispetto ad altri movimenti europei: «Il futurismo fu molto più importante del cubismo», dice Celant, «ma il mercato soprattutto quello americano, rifiutò l’arte legata alle dittature, quella fascista, quella nazista, quella sovietica». Leggere dell’entusiasmo fascista di chi oggi giustamente è considerato un grande prezioso nostro artista un po’ immalinconisce, lo si sapeva, ovvio, però non in modo così documentato e lapidario. «Ma l’artista ha sempre avuto il suo mecenate da servire: i papi, i re, i principi, le dittature, adesso il mercato e i suoi ricchi clienti. Nulla di nuovo». Purtroppo le cose belle che sono costate sono costose, e il catalogo ‘ Post Zang Tumb Tuuum lo è, 90 euro. Signore non indigenti volevano comprarlo ma il prezzo le ha terrorizzate: balocchi e profumi sì, ma un libro!