11 marzo 2018
APPUNTI PER GAZZETTA I DAZI DI TRUMP
Negli ultimi giorni si è parlato molto dei dazi che il presidente statunitense Donald Trump ha deciso di imporre sulle importazioni di acciaio e alluminio da tutti i paesi del mondo, tranne Canada e Messico. I dazi entreranno in vigore il 23 marzo: l’acciaio importato negli Stati Uniti sarà tassato del 25 per cento e l’alluminio del 10 per cento. I nuovi dazi avranno un impatto particolarmente rilevante su alcuni dei 28 paesi dell’Unione Europea, perché erano tra i principali esportatori verso gli Stati Uniti di acciaio e alluminio: e proprio sull’Unione Europea si stanno concentrando le attenzioni degli analisti e dello stesso Trump, che ieri è tornato a minacciare su Twitter una guerra commerciale.
L’offensiva protezionistica di Donald Trump va avanti. E dopo la firma del decreto con gli annunciati dazi al 25% sull’acciaio e al 10% sull’alluminio importati - che per il momento esclude Canada e Messico - Unione europea e Cina promettono battaglia. Nonostante il presidente Usa abbia confermato l’intenzione di "mostrare flessibilità con i Paesi amici".
Per la Ue parla la commissaria europea al Commercio, Cecilia Malmstrom, che proprio alla suddetta flessibilità si appella: "Il dialogo" continua a essere "la prima opzione", afferma durante una cerimonia a Bruxelles. E poco dopo su Twitter osserva: "L’Ue è uno stretto alleato degli Stati Uniti e continuiamo a essere del parere che debba essere esclusa da queste misure. Cercherò maggiore chiarezza su questo tema nei giorni a venire. Non vedo l’ora di incontrare il rappresentante Usa per il commercio Robert Lighthizer sabato a Bruxelles per discutere".
Più duro il vicepresidente della Commissione Ue Jyrki Katainen, che pur considerando il dialogo come "primo obiettivo", non esclude "delle contromisure" che comunque, sottolinea, "speriamo di non dovere usare". Ma "se si avverasse il peggior scenario possibile - avverte Katainen - siamo pronti a portare gli Usa davanti al Wto".
Cosa rischia l’Italia
All’allarme della politica e della diplomazia fa eco quello dei produttori d’acciaio, un mercato che coinvolge anche l’Italia che lo esporta per 650 milioni l’anno. Il 10% delle esportazioni italiane è diretto agli Usa e a preoccupare è la distinzione fatta da Trump tra i Paesi realmente amici e gli altri.
Nel 2017 le aziende siderurgiche italiane hanno esportato negli Stati Uniti 505.000 tonnellate di prodotti e semiprodotti siderurgici. Secondo i dati forniti da Federacciai, si tratta di circa il 10% del totale dell’export europeo del settore, pari a 4,935 milioni di tonnellate. L’export italiano verso gli Stati Uniti vale 653 milioni di euro, pari all’11,5% del totale europeo.
Secondo dati elaborati dall’Ice su fonti Istat, nel 2017 (gennaio-novembre) l’Italia ha esportato negli Usa oltre un miliardo di euro di prodotti della metallurgia (non solo quindi acciaio e alluminio), registrando un aumento del 19,4% rispetto al 2016.
Ben superiore la crescita delle importazioni: oltre 725 milioni, il 123% in più dell’anno precedente. Il saldo è stato positivo per 342,695 milioni di euro. Nella categoria sono compresi prodotti della siderurgia (295,701 milioni); tubi, condotti, profilati cavi e relativi accessori in acciaio, esclusi quelli in acciaio colato (286,914 milioni); altri prodotti della prima trasformazione dell’acciaio (197,46 milioni); metalli di base preziosi e altri metalli non ferrosi, combustibili nucleari (313,991 milioni); prodotti della fusione della ghisa e dell’acciaio (10,239 milioni). L’export di alluminio e semilavoratori è aumento del 2,1% a 65,62 milioni, mentre l’import, a 49,815 milioni, e’ balzato del 50%.
L’Istat, infine, ha calcolato nel 2016 lo scambio commerciale in America settentrionale suddiviso in due voci: esportazioni di lavori di ghisa, ferro e acciaio (893,1 milioni di euro) e lavori di alluminio (195,9 milioni); le importazioni si fermavano rispettivamente a 117,6 milioni e 54.800 euro.
Sul piede di guerra i produttori di acciaio cinesi che hanno espresso "forte opposizione" alla mossa del presidente Usa, e chiedono al governo di Pechino di intervenire. Immediata la risposta del ministero del Commercio, che promette di "difendere fermamente gli interessi e diritti legittimi" della Cina. Anche la Corea del Sud esprime rammarico per una decisione che sarà "un duro colpo per le esportazioni" di Seul. Intanto, però, il protezionismo sembra pagare almeno in termini dei consensi: il gradimento per Trump è balzato dal 38 al 42%, il massimo da quando si è insediato alla Casa Bianca, il 20 gennaio 2017, dopo che a febbraio era scesa al livello minimo del 35%.
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CAIZZI, CORRIERE DELLA SERA –
È scontro frontale tra l’Ue e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a causa dei dazi protezionistici su acciaio e alluminio annunciati dalla Casa Bianca. Il primo negoziato Ue-Usa a Bruxelles si è concluso con un nulla di fatto. Dall’altra parte dell’Atlantico Trump ha poi riaffermato la sua linea dura ventilando perfino una clamorosa estensione alle auto.
L’incontro a Bruxelles tra la commissaria Ue per il Commercio, la svedese Cecilia Malmström, e il rappresentante Usa per lo stesso settore, Robert Lighthizer, non ha concretizzato la speranza europea di ottenere l’esenzione dai dazi Usa, come è stato promesso da Washington ai partner confinanti Canada e Messico. «Non abbiamo ottenuto un chiarimento immediato sulla procedura per essere esentati e le discussioni dovranno proseguire la settimana prossima», ha commentato Malmström, ricordando che l’Europa è «un alleato e partner commerciale degli Stati Uniti e per questo deve essere esclusa dalle misure annunciate» per acciaio (25%) e alluminio (10%). Lighthizer non ha concesso aperture. Trump ha poi fatto capire perché. «L’Unione Europea, Paesi meravigliosi che trattano gli Usa molto male sul commercio, si stanno lamentando delle tariffe su acciaio e alluminio – ha twittato il presidente Usa -. Se lasciano cadere le loro orribili barriere e tariffe su prodotti Usa in entrata, anche noi lasceremo cadere le nostre. Grande deficit. Altrimenti tassiamo le auto, etc. Giusto!».
Il ministro del Commercio giapponese Hiroshige Seko ha partecipato all’incontro con Lighthizer a Bruxelles con una posizione simile a quella Ue. Il Giappone, principale alleato degli Stati Uniti in Asia, ha respinto la giustificazione Usa dei dazi collegati a esigenze di sicurezza nazionale. Ma Trump ha ribadito al premier di Tokyo, Shinzo Abe, che il disavanzo commerciale Usa «da 100 miliardi di dollari, non è giusto, né sostenibile».
Nel 2017 l’export dell’Europa verso gli Stati Uniti è stato stimato in 5,3 miliardi di euro per l’acciaio e in 1,1 miliardi per l’alluminio. Le associazioni Ue dei produttori del settore hanno anticipato che i dazi Usa potrebbe costare migliaia di posti di lavoro.
Ma Malmström e Seko hanno espresso «forte preoccupazione» soprattutto perché la linea di Trump apre il rischio di una clamorosa guerra commerciale. La Commissione europea ha già preparato una lista di prodotti Usa da esportazione (dai jeans al burro di arachidi e fino alle moto di grossa cilindrata) da tassare o sottoporre a quote e altre restrizioni, qualora la Casa Bianca non esentasse tutti i 28 Paesi Ue dalle tariffe annunciate (e che dovrebbero entrare in vigore in un paio di settimane). Il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto sapere di aver discusso con Trump — venerdì scorso al telefono — di «strade alternative ai dazi» per risolvere le preoccupazioni Usa sull’export di acciaio della Cina a basso costo grazie a sussidi statali. Macron ha anche detto al presidente Usa che «l’Europa risponderà in modo chiaro e proporzionato contro ogni pratica infondata e contraria alle regole del commercio mondiale». La Germania, che è uno dei principali esportatori mondiali, è ancora più dura e considera perfino il ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto).
Gli interventi ritorsivi dell’Ue intenderebbero colpire prodotti di Stati Usa con in arrivo le elezioni di medio termine, per aumentare la pressione politica sulla Casa Bianca. Ma Trump, che contesta alla Germania e ad altri partner europei nella Nato anche il mancato aumento delle spese militari, ha ormai fatto capire che il negoziato Ue-Usa della prossima settimana non si annuncia facile.
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RAMPINI, LA REPUBBLICA –I dazi americani rimangono, su acciaio e alluminio europei. Nessuna concessione, malgrado la partnership strategica e le alleanze militari. La fumata nera è venuta dal primo summit trilaterale che ha riunito Usa, Ue e Giappone, 48 ore dopo l’annuncio dell’offensiva protezionista da parte di Donald Trump. Si sono ritrovati a Bruxelles l’alto rappresentante della Casa Bianca per il commercio, Robert Lighthizer, la commissaria europea responsabile per il commercio estero, Cecilia Malmstroem, e il ministro dell’Economia giapponese Hiroshige Seko. Nel frattempo da Washington Donald Trump ha parlato a telefono con il presidente francese Emmanuel Macron – che in questo caso si è fatto portavoce dell’Unione intera – e con il premier giapponese Shinzo Abe. Gli scambi sono stati duri. Al premier nipponico Trump ha rinfacciato un deficit bilaterale di 100 miliardi di dollari che ha definito “ iniquo e insostenibile, un problema a cui bisogna trovare soluzione”. Macron a sua volta ha detto al presidente americano: “ Noi rispettiamo le regole del commercio mondiale. La Ue risponderà in modo proporzionale ad ogni azione unilaterale”.In serata Trump ha scritto su Twitter: « L’Unione europea, Paesi meravigliosi che trattano molto male gli Stati Uniti sul commercio, si lamentano per i dazi su acciaio e alluminio. Se tolgono le loro orribili barriere e dazi sui prodotti americani che importano, faremo altrettanto. In caso contrario, tasseremo le auto».E il plenipotenziario di Trump inviato alla trilaterale di Bruxelles non ha fatto un centimetro in direzione degli europei. Va ricordato che invece dalla mannaia dei dazi ( 25% sulle importazioni di acciaio e 10% su quelle di alluminio) l’Amministrazione Usa aveva subito esentato Canada, Messico, Australia. Perché la loro “ amicizia” vale più di quella europea? Nel caso di Canada e Messico c’è una spiegazione legata al Nafta: è in corso il negoziato per riformare le clausole del mercato unico nordamericano e Trump ha sospeso i dazi per usarli come strumento di pressione a quel tavolo. Ulteriore spiegazione per il Canada: diverse multinazionali Usa dell’acciaio e dell’alluminio hanno altiforni sui due lati della frontiera canadese e il dazio si ritorcerebbe contro di loro. Non si capisce invece perché l’Australia abbia un rango di alleato superiore a quello degli europei. A Washington si dice che lo sforzo di lobby dispiegato dalla premier australiana Julie Bishop sia stato particolarmente efficace, con l’uso tra l’altro di un campione di golf amico personale di Trump, Greg Norman. Con europei e giapponesi invece il primo round di trattative a Bruxelles si è concluso “senza chiarezza”, nonostante la tassativa richiesta Ue di un’esenzione immediata dai dazi. La discussione continua la prossima settimana ma il tempo stringe: i dazi entrano in vigore fra 15 giorni. È pronto anche l’arsenale delle ritorsioni europee che colpirebbero importazioni made in Usa quali le moto, i jeans, il burro di arachidi. L’export europeo di acciaio verso gli Stati Uniti vale 5,3 miliardi di euro all’anno, quello di alluminio 1,1 miliardi.Una possibile via d’uscita da questa impasse: gli europei faranno proposte su come “ uscire dalla situazione di sovraccapacità mondiale” e adottare “ regole più severe contro i sussidi e le pratiche distorsive della concorrenza”. Su questi temi però la pressione dovrebbe spostarsi sulla Cina: è lei che concentra la massima sovraccapacità produttiva nell’acciaio e nell’alluminio, e pratica da sempre aiuti di Stato e dumping. Bisognerà vedere se dallo scontro sui dazi si esce con una manovra congiunta Usa- Ue che sposti l’attenzione su Pechino. Il vicepresidente della Commissione Ue, Jyrki Katainen, ha invece messo in guardia Washington dalla tentazione di dividere gli europei: sui dazi non possono esserci trattative bilaterali in ordine sparso.
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RAMPINI, LA REPUBBLICA –
Il Day After dei dazi: altro che fine del mondo, Wall Street esulta. La causa dell’euforia in Borsa è un’altra, è il dato dell’occupazione per il mese di febbraio. Con + 313.000 posti di lavoro creati, la crescita americana si conferma robusta. La Casa Bianca esulta e si appropria il merito di questa congiuntura positiva (quando le statistiche premiavano Barack Obama, l’allora candidato Donald Trump le bollava come false). I mercati salgono anche per un’altra ragione. Gli investitori non sono del tutto convinti che siamo al capolinea della globalizzazione. Nel mondo del business c’è la speranza che il protezionismo di Trump si possa smussare, attenuare.Novità interessante è che le lobby industriali americane contrarie ai dazi (sono la maggioranza) studiano la possibilità di bloccarli in sede giudiziaria. I ricorsi stanno per partire. Le grandi aziende in questo frangente si ispirano a quel che la sinistra e i movimenti pro- immigrati fecero contro il Muslim Ban bloccandolo più volte nei tribunali. Anche al Congresso i repubblicani contrari al protezionismo si stanno muovendo: è un senatore del partito del presidente, Jeff Flake, il primo a presentare un disegno di legge per svuotare la mossa dei dazi. Tenuto conto che alla vigilia della firma del decreto protezionista più di cento parlamentari repubblicani avevano firmato un appello al presidente contro i dazi, non si può escludere che proprio dentro il Grand Old Party si stia organizzando una resistenza efficace. Tradizionalmente è tra le file dei repubblicani che aveva messo radici più profonde il pensiero neoliberista, contrario alle barriere commerciali.È sulle colonne del Wall Street Journal – conservatore ma liberista – che si leggono gli attacchi più pesanti contro questa mossa del presidente. Un editoriale paragona i dazi su acciaio e alluminio alle leggi protezioniste che durante l’Amministrazione Hoover contribuirono a precipitare la Grande Depressione degli anni Trenta. Un editorialista autorevole come Greg Ip ridicolizza la giustificazione del protezionismo legata alla sicurezza nazionale con questa osservazione: Trump ha detto che vuole preservare la produzione nazionale di alluminio perché serve a fabbricare navi da guerra e aerei militari, ignorando che per produrre alluminio occorre la bauxite e l’America la importa al 100% dall’estero.La durezza delle proteste domestiche dà un’idea di quel che rischia il capitalismo americano in questa fase. La rivolta in seno al partito repubblicano e la durissima opposizione delle multinazionali hanno una spiegazione che risale alle origini di questa fase della globalizzazione: quando nasce la World Trade Organization ( Wto) nel 1999 e due anni dopo viene cooptata al suo interno la Cina, gran parte dell’industria americana è felice di concedere ai paesi emergenti come Cina e India delle condizioni agevolate e asimmetriche, perché le multinazionali scommettono sulla delocalizzazione. Oggi se Trump dovesse estendere i dazi a settori davvero strategici come l’informatica, tasserebbe gli iPhone di Apple tutti fabbricati a Shenzhen. Compresi quelli che si vendono qui in America. Altro esempio significativo riguarda l’industria dell’automobile. Trump ha ricordato – giustamente – che la Cina impone sulle auto made in Usa dei dazi che sono il decuplo rispetto a quelli reciproci ( 25% contro il 2,5% sulle auto cinesi vendute negli Stati Uniti). Vero, ed è uno dei tanti esempi di asimmetrìe. Ma fin dall’inizio le case automobilistiche americane decisero di andare a produrre in Cina, su quel mercato General Motors e Ford hanno fatto ricchi profitti. Non hanno interesse a rimettere in questione un assetto di regole che a loro ha giovato.Per gli europei invece l’Amministrazione Trump continua a ripetere il ritornello di ieri: ogni singolo governo è libero di fare lobbying per conto proprio per tentare di dimostrare che è un buon alleato e che le sue esportazioni di acciaio non ledono gli interessi nazionali e la sicurezza degli Stati Uniti. Peccato che “ ogni singolo governo europeo” non sia affatto libero di negoziare accordi commerciali separati con gli Stati Uniti.
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D’ARGENIO, LA REPUBBLICA –
Riluttante, l’Europa entra in guerra sui dazi contro gli Stati Uniti di Donald Trump. Fino all’ultimo Bruxelles ha sperato che la Casa Bianca escludesse l’Unione dalle barriere per acciaio e alluminio. Ora è costretta a mettere in campo le contromisure. Pesa il rischio di una escalation che colpirebbe altri settori cruciali per l’industria europea aumentando i danni per crescita e occupazione. E pesa la minaccia americana di negoziare eccezioni con i singoli governi Ue, tentativo di spaccare l’Europa che avrebbe pesanti ripercussioni sull’Unione. D’altra parte, spiegano dai piani alti della Commissione europea, «non possiamo non reagire, dobbiamo far vedere a Trump che anche l’industria statunitense rischia per dare argomenti al fronte anti dazi interno all’amministrazione e ai repubblicani».Ma il rischio è alto. Bruxelles ha varato un pacchetto di contromisure che vanno da dazi speculari a quelli Usa su alluminio e acciaio fino a quelli contro settori simbolici del Made in Usa, dalle moto Harley- Davidson ai jeans Levi’s fino al Bourbon e ai succhi d’arancia. Ma a quel punto sarebbe tutto il settore agroalimentare europeo a tremare, Italia in testa. E non solo. Trump ha già minacciato di mettere dazi anche sull’import di auto, potrebbe farlo anche sull’import di moto (circa 160 mila addetti), sulla meccanica, sull’industria militare e aerospaziale. A farne le spese, anche qui l’Italia in prima fila, potrebbe essere anche il settore del lusso.I dazi a stelle e strisce entreranno in vigore tra quindici giorni, periodo durante il quale i governi Ue saranno chiamati a dare il via libera alle ritorsioni preparate da Bruxelles. Ma da usare anche per cercare un accomodamento con gli americani prima di passare alle vie di fatto, nonostante in pochi ci credano davvero.Alla fine l’importante per l’Europa sarà restare unita, con Bruxelles che si prodigherà per evitare spaccature. Sperando di schivare una pericolosa escalation. Perché se come assicurava ieri Mario Draghi «le ricadute inizialmente non saranno grandi » , un crescendo di rappresaglie potrebbe danneggiare seriamente l’Europa.