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 2018  marzo 11 Domenica calendario

Annientamento è già cult

Annientamento sarebbe dovuto uscire due anni fa. E sarebbe dovuto uscire al cinema, su grande schermo, come prevedeva l’accordo con Paramount. Il nuovo film di Alex Garland, nominato all’Oscar nel 2016 con Ex Machina, era costato agli studios 55 milioni di dollari: un budget esplorativo (un film come Alien: Covenant è costato il doppio, Ex Machina meno della metà) per un film apparentemente “solido” tratto da La trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer, con due sequel in predicato da diluire negli anni. Eppure Annientamento, al cinema, ci è arrivato solo negli Stati Uniti. Nel resto del mondo il film viene distribuito da domani grazie a Netflix, che lo propone in streaming dopo averlo scippato con mossa abilissima a Hollywood, terrorizzata da un prodotto frettolosamente giudicato «troppo intellettuale», e «complicato» dal final cut preteso e ottenuto dal regista. Errore: perché se Annientamento è intellettuale, lo è allo stesso modo in cui lo fu il primo Alien di Ridley Scott. E cioè fantascienza pura in cui la metafora (qui: il doppio, la dipendenza, il corpo) è un ingrediente tra gli altri, insieme alle incursioni nell’horror, alle scariche di adrenalina e ai protagonisti tostissimi – meglio se donne – schierati contro variegate mostruosità aliene. Errore doppio, anche perché nel frattempo il film è stato salutato unanimamente dalla critica statunitense come la migliore fantascienza vista negli ultimi anni.
LA PROTAGONISTA
Protagonista assoluta Natalie Portman, nei panni di una biologa militare arruolata in una missione suicida all’interno di una zona contaminata, dove già suo marito (Oscar Isaac) si era avventurato un anno prima. In quell’area, che i ricercatori chiamano The Shimmer (“il bagliore”), la terra ha cominciato a mutare, l’aria è traslucida come una bolla di sapone, le onde radio non penetrano e chiunque sia entrato, uomo animale o drone, non ha mai fatto ritorno. Tutta colpa di un meteorite che qualche anno fa si è schiantato sulla costa, centrando in pieno un faro nel quale forse si nasconde la soluzione del mistero. «Mi interessa come il film parli dell’autodistruzione, intendendola come una tendenza della natura e dell’uomo – ha detto Portman – e poi Garland mi piace perché è uno dei pochi a valorizzare le attrici, cui assegna sempre ruoli da protagonista. È una cosa semplice ma allo stesso tempo radicale». Complice una fotografia da fiaba acida e le musiche di Geoff Barrow dei Portishead, Garland costruisce una sorta di Alice nel paese delle meraviglie mutate, muovendo le cinque donne del gruppo (oltre a Portman anche la psicologa Jennifer Jason Leigh, l’antropologa Gina Rodriguez, la linguista Tuva Novotny e la scienziata Tessa Thompson) tra ibridi vegetali e animali, in un caleidoscopio impazzito di mutazioni, dna instabili e psiche altrettanto fragili. Perché le cinque eroine non sono affatto eroine, sono ragazze interrotte – tossiche, masochiste o malate, tutte votate all’autodistruzione – che hanno poco da perdere tanto sul piano psicologico che su quello biologico. Un film costruito su più piani temporali, tra flashback del passato nella giungla lisergica, ricordi di una storia d’amore forse non così perfetta e un presente livido, in una cella da laboratorio: ritmo trip hop con un finale che espande la mente, una sequenza già cult che ha spaventato gli studios e che lascia la porta aperta a nuovi capitoli.