Avvenire, 11 marzo 2018
Egitto verso il voto con gli occhi bendati da un Pil in risalita
A due settimane dall’appuntamento elettorale che, con tutta probabilità, riconsegnerà le redini della Repubblica araba d’Egitto al presidente Abdel Fattah al-Sisi (il primo turno delle elezioni presidenziali si terrà dal 26 al 28 marzo, il secondo dal 24 al 26 aprile), la cronaca economica araba e pure quella internazionale danno ampio risalto ai successi dell’Amministrazione in carica, ricacciando sotto il tappeto della convenienza politica la brutalità di un sistema che non tollera dissenso. «Così come il successo crea gelosia professionale, anche i Paesi che sono astri in ascesa attraggono gente invidiosa... Insomma, saremo sempre criticati per qualcosa», ha dichiarato il ministro del Petrolio Tarek el-Molla, rigettando qualsiasi osservazione alla condotta del regime. Per la verità, i moniti, seppure circostanziati, non stanno trovando orecchie attente neanche in Occidente. L’appello formulato da 14 Ong – egiziane e globali – affinché Unione Europea e Stati Uniti d’America denuncino apertamente le «elezioni farsesche» che si preannunciano in Egitto non è stato finora accolto.
Gli indicatori macro-economici paiono inebriare gli alleati, in competizione fra di loro per la piazza egiziana. Fra di essi, l’Italia è in prima fila: a fine 2017 l’interscambio commerciale fra Roma e Il Cairo sfiorava i 4 miliardi di dollari, mentre gli investimenti italiani nel Paese nordafricano superavano i 2,7 miliardi. Ed ecco la pagella economica del rais: ad oggi, le previsioni di crescita per l’anno fiscale in corso sono del +5,3-5,5% (+4,8% nell’anno fiscale precedente); le riserve di valuta straniera hanno raggiunto i 38,2 miliardi di dollari, superando quelle pre-rivoluzionarie, a fine 2010 giunte a 36 miliardi. Già allora si trattava di una cifra di tutto rispetto, spia di una sostanziale fiducia degli investitori nella tenuta del Paese. Quanto all’inflazione, essa si sta ridimensionando: dopo un picco del 35% nell’estate 2017, dovrebbe calare di 13 punti entro l’anno 2018. Sta riprendendo ritmo anche il turismo: nei primi dieci mesi del 2017, hanno visitato le principali mete egiziane 7 milioni di viaggiatori. Sono lontani i 13 milioni di otto anni fa e pure i flussi europei (cinesi e indiani tamponano la diffidenza di britannici, francesi e italiani), tuttavia l’anno appena trascorso, con il suo +55% sul 2016, ha fatto dimenticare agli operatori del settore la crisi seguita all’esplosione di un aeromobile russo nei cieli del Sinai (ottobre 2015, 224 vittime, una strage rivendicata dal distaccamento del Daesh nella penisola egiziana). Una “joint-venture” statunitense- saudita darà ulteriore slancio al comparto mettendo in piedi una Disneyland egiziana: il governatorato di Matrouh vedrà la nascita di un parco dei divertimenti del valore di 3,3 miliardi di dollari.
La lista sciorinata dal ministero del Commercio e dell’Industria prosegue: il deficit commerciale è in assorbimento; entro il 2020 esso sarà ricondotto al 3% del Pil nazionale. E soprattutto, entro il prossimo triennio il commercio di beni e servizi rappresenterà il 45% del Pil (dal 33% del 2016). L’export, peraltro, sta già aumentando del 10% anno su anno. E per la produzione industriale, l’obiettivo è del +8% annuo. Entro il 2030, in parallelo, il Cairo intende ricondurre il tasso di disoccupazione dall’attuale 11% medio al 4%, impiegando ogni anno circa 700mila giovani freschi di diploma e laurea. Si tenga presente che entro il 2020 la popolazione egiziana dovrebbe aumentare del 20% e che già oggi la “boa demografica” dei 100 milioni di cittadini è dietro l’angolo. Il mondo finan- ziario annuisce per le mosse del Cairo e attende nuovi sviluppi: dopo il collocamento di titoli di Stato a varie scadenze per 4 miliardi di dollari, ora è in arrivo un’emissione in euro, secondo indiscrezioni in aprile.
In un clima di sostanziale impunità globale, dunque – di cui la vicenda del ricercatore friulano Giulio Regeni è amaramente simbolica – la dirigenza egiziana sta prendendo misure spregiudicate che le garantiranno il controllo del Paese per decenni. Nel mirino governativo vi sono leader e membri di partiti politici oppositori, associazioni per la difesa dei diritti dei cittadini, attivisti.
Abd al-Moneim Abu al-Fotouh, numero uno del partito Forte Egitto, già candidato alle presidenziali del 2012, è uno degli arrestati eccellenti delle ultime settimane (14 febbraio): il suo nome e quello di altre 15 persone è stato inserito nella ormai celeberrima lista dei terroristi legati alla Fratellanza musulmana. Il politico (medico, ex fratello musulmano, noto per la sua natura dialogante che gli è valsa non pochi nemici nella stessa Confraternita) è accusato di aver concesso interviste «anti-presidenziali» durante un recente soggiorno londinese. Al rientro in patria, il fermo è stato immediato. Interrogato per giorni nella prigione di al-Tora, a sud della capitale, il 66enne è stato più volte portato in ospedale in condizioni critiche, ma mai rilasciato. Allo stesso modo, è in custodia dal 9 febbraio Mohamed Abd al-Latif Talaat, segretario generale del partito al-Wasat (il Centro, islamisti moderati liberali). E pure Hisham Geneina, già numero uno dell’Agenzia nazionale per la revisione dei conti. Geneina aveva dichiarato che il generale Sami Anan (figura di primissimo piano del clan Mubarak, Anan ha formulato il proposito di candidarsi a metà gennaio ed è stato subito arrestato con l’accusa di falso ideologico, ndr) sarebbe in possesso di documenti scottanti: materiale che proverebbe il coinvolgimento delle massime cariche delle Forze armate nei fatti più tragici accaduti in Egitto dal 2011 in poi. Il 17 febbraio, anche il reporter interlocutore di Geneina è stato preso in custodia dalla Sicurezza nazionale. I due, insieme a Mohammed al-Qassas, numero due del partito Forte Egitto, sono detenuti nella prigione di massima sicurezza Scorpion, sempre a Tora. Sono già centinaia i cittadini egiziani arrestati dagli agenti della sicurezza nazionale in questo primo scorcio di 2018: di norma, la Procura priva gli accusati di risorse economiche, diritti politici, passaporto, ma capita anche che essi svaniscano nel nulla.
Alla denuncia di Human Rights Watch per il ripetuto (e documentato) uso della tortura da parte dell’apparato di sicurezza fa eco l’allarme di Amnesty International: sono oltre 240 i cittadini attivisti arrestati da aprile a settembre del 2017; quasi 500 quelli arrestati perché vicini alla Fratellanza musulmana.
Nell’era post-rivoluzionaria è tornata in auge anche la pena di morte: il 26 dicembre sono state eseguite 15 condanne capitali; «manifestare senza autorizzazione» può costare anche 10 anni di reclusione. Moussa Mustafa Moussa, del partito al-Ghad (filo-regime), risulta l’unico candidato alla competizione elettorale contro il presidente in carica. Moussa, sconosciuto ai più, ha presentato la propria candidatura in sordina, mezz’ora prima della chiusura del tempo utile per la registrazione. Altri cinque candidati più “scomodi” di lui si sono ritirati.
Tutto ciò non pare aver modificato la posizione delle autorità religiose copte ortodosse, rappresentative della maggiore comunità cristiana in Egitto: il patriarca Tawadros II, comparendo alla tv di Stato, ha definito Sisi «un maestro che sta guidando una grande orchestra e ottenendo risultati tangibili». Anche un nutrito gruppo di vescovi ortodossi ha deciso di esprimere apertamente il proprio sì al rinnovo del mandato per Abdel Fattah al-Sisi (tra loro il vescovo di Assiut, Anba Youannes). I copti hanno appoggiato anche all’operazione anti-terro- rismo avviata a metà febbraio in tutto il Paese, al pari dei vertici della moschea universitaria di al-Azhar.
Fra i giovani, tuttavia, sembra prevalere l’intenzione di astenersi dal voto. Sui social network arabi o americani (negli Stati uniti vivono migliaia di copti egiziani), la gioventù cristiana rimprovera ad al-Sisi un quadro micro- economico peggiore rispetto al 2014, così come il persistere delle discriminazioni contro la minoranza.
Eppure, il ricordo vivissimo degli attentati jihadisti e della voracità politica della Fratellanza musulmana (al potere per un anno, dall’estate del 2012) ancora una volta dovrebbero dare una mano a quello che molti considerano il «male minore».
Confermando il peso strategico del candidato al-Sisi non solo per l’Egitto, ma per la travagliata regione nordafricana.