la Repubblica, 10 marzo 2018
Breve storia del sabato sera
Oggi ricordiamo solo la febbre del sabato sera, perché è il fenomeno a noi più vicino, l’ultima folle, effervescente, scatenata, contagiosa smania danzereccia prima dell’avvento dei dj superstar, dei rave, del villaggio globale che ruota vorticosamente intorno alla rete, della grande depressione dei millennial. Ma senza andare indietro fino al valzer, dance music delle corti austroungariche, nel Novecento di corsi e ricorsi legati al ballo e alla night life ce ne sono stati, ciclicamente, a ogni quarto di secolo, ognuno con propri locali, dress code, suoni. Il charleston e lo shimmy, nei ruggenti anni Venti: gonne svolazzanti, locali pieni di fronzoli e i bianchi che sgattaiolavano di nascosto nei locali di Harlem per trasgredire a ritmo di jazz (la cocaina dell’epoca); lo swing delle grandi orchestre, prima e dopo la Seconda Guerra, un’euforia senza precedenti in quelle affollatissime dance hall dal soffitto basso; la febbre latina che stordì New York a suon di Mambo per quasi dieci anni, a partire dal 1948, quando il Palladium Ballroom, arredato in stile barocco coloniale, diventò il santuario del ritmo afrocubano ( come ben raccontato nel romanzo Mambo Kings di Oscar Hijuelos e nel film con Antonio Banderas e Armand Assante che ne fu tratto); i mille balli degli anni Sesssanta (freddie, frug, hitch-hike, loco-motion, mashed patato, swim, watusi, hully gully, limbo) con in testa il contagiosissimo twist, quando il Peppermint Lounge di Times Square, poco più di un cavernoso scantinato, fu preso d’assalto dai posseduti di turno e dagli immancabili vip – da Norman Mailer a Marilyn Monroe, da Audrey Hepburn a Greta Garbo.
La febbre del sabato sera resta indelebile nella memoria collettiva perché associata a una rivoluzione musicale, la disco, legata al cuore degli anni Settanta ma ancora nell’aria; a un film, Saturday night fever, all’epoca commerciale e con gli anni diventato cult; a uno sconvolgimento sociale che ha spalancato le sale da ballo a una popolazione cosmopolita, interraziale, interclassista, transgender e transgenerazionale. Allo Studio 54, nel cuore di Manhattan, diventato il locale simbolo del nightclubbing del Novecento, non c’erano soltanto, come storia e leggenda tramandano -– e racconta la mostra Night Fever, Designing Club Culture, 1960- Today al Vitra Design Museum dal 17 marzo – Warhol e Jagger, Diana Ross e Salvador Dalì, Jackie Onassis e Diana Vreeland, Truman Capote e Martha Graham, Cary Grant e John Lennon, Liz Taylor e Calvin Klein, Baryshnikov e Divine (il travestito diventato simbolo della trasgressione disco), ma anche un folto pubblico di paganti rigorosamente selezionato alla porta non in base al ceto ma all’apparenza, diciottenni e ottantenni (se ne vedevano di arzille vecchiette alla Iris Apfel allo Studio; la più celebre, Disco Sally, un’avvocatessa vedova, diventò la mascotte del locale). Non c’era bisogno di investire milioni per arredare le sale da ballo, bastavano un cubo nero, “il trono” del dj, una mirror ball e un menu a base di coca e popper per accogliere quella folla colorata e stravagante; non era il locale a stabilire la cifra dell’eccesso ma il popolo della notte, lo spettacolo erain pista.
Gli spazi potevano essere minimal o barocchi, gotici o rétro, industrial o kitsch: pochi accorgimenti – luci, amplificazioni e soprattutto frenetico passaparola – erano sufficienti a cancellare i segni del passato e a trasformarli in “loft” per maratone dance. D’altronde la storia era iniziata proprio in un loft. Fu David Mancuso, il dj pioniere della disco, a far scattare la scintilla con i private party a suon di Soul Makossa che cominciò a organizzare dal febbraio 1970 nel suo Loft al numero 647 di Broadway (poi costretto dalle proteste dei vicini a traslocare al 99 di Prince Street), poco più di duecento metri quadrati che avrebbero generato quel pandemonio. Il locale, il cui motto era Love saves the day, diventò il rifugio della clientela gay, stanca di essere derisa e magari anche ammanettata per atti osceni nelle discoteche straight. Facevano la fila al Loft, un piccolo business che stuzzicò la fantasia di holding e imprenditori facoltosi. Vecchi teatri newyorkesi – qualcuno con una storia che risaliva a un secolo addietro – furono ribattezzati con nomi ammiccanti per ospitare il popolo più glitterato della storia della dance music: Palladium, Limelight (una chiesa sconsacrata), Paradise Garage, Danceteria, The Gallery, The Saint, il preferito dai gay, e a Chicago il Warehouse, culla della house music e regno del leggendario dj Frankie Knuckles.
Se il Piper Club di Roma, egregio esempio di architettura radicale ( progettato nel 1965 da Manilo Cavalli, Francesco e Giancarlo Capolei) fosse stato a New York, sarebbe stato frettolosamente riciclato in tempio della disco, a patto che si fosse sbarazzato della sua storica clientela; vero che la culla del beat italiano era frequentato anche dall’intellighentia (l’immancabile Warhol, ma anche Piero Manzoni), ma il resto del pubblico era ancora troppo conformista ( golfino in cachemire e camicia oxford, come i ragazzi che prendevano parte alla trasmissione televisiva Bandiera Gialla; l’omonimo locale di Rimini avrebbe aperto i battenti nel 1983).
All’epoca della febbre del sabato sera le capitali europee erano province che arrancavano dietro New York. Non avevamo avuto il nostro Stonewall, la rivoluzione sessuale era di là da venire. I gay che nella Big Apple erano il motore della vita notturna, nelle nostre metropoli si muovevano ancora tra locali underground e club privé, a Londra (dove l’età del consenso per gli omosessuali era ancora 21 anni e le pene severissime) più che altrove. Solo il Palace di Parigi, magnifico teatro del XVII secolo riconvertito in disco- club nel 1978 da Fabrice Emaer, riuscì a ricreare nel vecchio continente la stravaganza dei party newyorkesi. Proletari e borghesi, etero e omosessuali ballavano tra gli antichi stucchi, durante memorabili concerti di Grace Jones, insieme a Saint- Laurent e Thierry Mugler, François Mitterand e Roland Barthes, i principi di Monaco e i rampolli delle ormai decrepite nobiltà europee (senza dimenticare Andy Warhol, naturalmente). Per chi considerava il Palace troppo plebeo, c’era il Bains Douches, un diurno ottocentesco dismesso da decenni con docce sulfuree e bagno turco (frequentato anche da Proust) che ridecorato da Philippe Starck, allora astro nascente, divenne dal 1978 il rifugio dell’élite che aveva voglia di ballare e sballare, ma alla disco preferiva i Talking Heads. Anch’essa travolta dalla febbre, ma irrimediabilmente snob. Per dirla con la canzone, everybody is a star!