la Repubblica, 9 marzo 2018
Al Pacino: «La salvezza è recitare e non imitare. Così ho sconfitto i vizi»
Volete licenziarmi?Provateci». Quello sullo schermo, con aria di sfida, non è più Al Pacino ma un ultracorpo: il viso ha il colore di una vecchia brioche, il tronco panciuto, i capelli grigi. Nel film diretto da Barry Levinson per Hbo, Paterno — prossimamente su Sky Cinema – Pacino si trasforma nella leggenda Joe Paterno, l’ex allenatore italoamericano entrato nel Guinness dei primati con il più alto numero di vittorie nella storia del football major-college.Fino all’accusa di aver coperto uno dei suoi assistenti, Jerry Sandusky, colpevole dell’abuso di quaranta bambini negli spogliatoi della Pennsylvania State University, dove “JoePa” era un’istituzione dell’atletica giovanile. La faccia invecchiata da ore di make-up fa saltare tutti i personaggi nati in quarant’anni di carriera: «Vengo dalla strada, dal South Bronx, dove abitavo con mia madre e i nonni emigrati da Corleone a New York, prima di essere accolto da Lee Strasberg all’Actor’s Studio», racconta Pacino, 77 anni. Con il gangster Michael Corleone, Tony Montana di Scarface e il poliziotto Serpico, Paterno «ha in comune il senso di solitudine che provavo io da bambino, quando mi chiudevo in una stanza a reinterpretare i film che vedevo al cinema». Da allora ci sono stati un Oscar, vari Golden Globe e la reunion de Il padrino: «Lo studio non mi voleva. Troppo basso come gangster, dicevano».E a proposito di mutazioni, nel 2019 ritroveremo Pacino e De Niro (l’ex Vito Corleone) insieme tra mafia e corruzione in The Irishman di Martin Scorsese, ringiovaniti e invecchiati dagli effetti della Industrial Light & Magic.Pacino, che rapporto ha con il tempo?«Rispetto a quand’ero giovane, e improvvisavo le mie commedie teatrali nelle vetrine dei bar del Village, oggi ho l’opportunità e il privilegio di scegliere. Avevo 23 anni, forse ero infelice. Cercavo di spingermi verso una direzione, e quella direzione spesso era il cinema. Adesso è il cinema che viene verso di me, a dirmi: io ti salvo. È di grande aiuto poter dire sì o no quando ti offrono un copione; questo lo scelgo, questo lo scarto. Mi godo la grande lotteria dello spettacolo. Non faccio più film perché devo».Dalle vetrine dei bar è arrivato a interpretare “Il mercante di Venezia” a Central Park.«In passato ero un recluso, un timido. Il teatro mi ha riconciliato con il pubblico e con la mia identità. Ma la penso un po’ come Orson Welles: una volta che cominci a fare cinema, non torni indietro».Ha già interpretato personaggi realmente esistiti.Perché Joe Paterno?«Ogni progetto è diverso: per Hbo sono stato l’avvocato gay Roy Cohn in Angels in America, poi il Dr. Morte, il padrino del suicidio assistito Jack Kevorkian (un Emmy, ndr) diretto da Barry Levinson, e il produttore e musicista Phil Spector, riconosciuto colpevole di omicidio. Se c’è un legame tra loro? Io che li interpreto! La regola aurea è evitare la replica.Non imitare. Anche se dovreste ascoltarmi cantare Al Johnson o Sinatra… Su Paterno ho fatto molte ricerche: la squadra di football Penn State Nittany Lions, le fotografie, i ritagli di giornale, documentari.Ma non ho incontrato di persona la comunità che ha amato Paterno al punto da dedicargli una statua.Era un imperatore, un re.Lì la vicenda scotta ancora.L’annuncio di dimissioni di Paterno è arrivato un anno prima della sua morte per cancro ai polmoni».Secondo gli investigatori, Paterno tentò di insabbiare gli abusi. Era davvero al corrente ed è rimasto zitto?«Recitare è una delle cose più complicate al mondo. In Paterno ho dovuto fare una scelta: credo a Paterno o lo considero un bugiardo? Conosco diversi coach, li ho contattati uno a uno per prepararmi: tutti parlano esattamente come Paterno.Ripetono le stesse parole. La più citata è “focus”. Infatti focalizzano l’attenzione sul campo, le strategie, il gioco. Non esiste altro, soltanto lo sport. È probabile che Paterno non si sia mai accorto di ciò che accadeva negli spogliatoi. Nel film, a un certo punto, sua moglie lo provoca e dice: “Jerry Sandusky è stato in piscina con i nostri bambini, un giorno. Se tu avessi saputo che era colpevole, non lo avresti lasciato andare. Giusto?”».Paterno era un italoamericano, come lei.«Non mi stancherò mai di ripeterlo: io sono completamente italiano.Dentro! L’Italia è la mia casa, la mia patria».In “Ogni maledetta domenica” di Oliver Stone il suo personaggio, Tony D’Amato, ispirato al coach Vince Lombardi, diceva: “O noi risorgiamo come collettivo o saremo annientati individualmente”.«Credo nello spirito di squadra in tutti i settori della vita.Mio nonno, James Gerardi, era un imbianchino e mi ha insegnato la gioia del lavoro, del fare gruppo. Ho smesso di bere nel ’77 proprio grazie al mestiere dell’attore. Ecco perché non ci faccio caso quando parlano di rivalità con Robert De Niro. Bobby è un genio puro».