il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2018
Gli autisti sono sottopagati ma Uber fa la guerra ai dati
Scusate, ci siamo sbagliati: gli autisti di Uber non guadagnano una miseria, ma guadagnano comunque molto meno di quanto dovrebbero. È la conclusione a cui è arrivato, nei giorni scorsi, un ricercatore del Mit di Boston, una delle più importanti università di ricerca del mondo, che ha pubblicato uno studio sui ricavi degli autisti delle due più famose applicazioni statunitensi per il trasporto urbano, Uber e Lyft. La conclusione arriva dopo una lunga querelle che ha coinvolto l’ad di Uber e i suoi consiglieri economici. Conclusione: il profitto medio degli autisti non è di 3,37 dollari l’ora, come inizialmente ipotizzato, ma tra gli 8 e i 10 dollari. Una cifra comunque inferiore al salario minimo.
La vicenda. La settimana scorsa, i ricercatori del Center for Energy and Environmental Policy del Mit hanno pubblicato un documento con i dati di un sondaggio svolto tra 1.100 autisti Uber e Lyft. Secondo i calcoli, dopo aver contabilizzato le spese, i conducenti avrebbero avuto un profitto medio di 3,37 dollari l’ora: 661 al mese. Il 74% di loro, quindi, è sotto il salario considerato minimo per il mantenimento di una famiglia nei loro stati. Poco dopo, il capo economista di Uber Jonathan Hall ha contestato il calcolo sostenendo che fosse viziato da una logica sbagliata e da una domanda fuorviante. Il ricercatore, Stephen Zoepf ha incassato il colpo e ha prima dichiarato che avrebbe rivisto il calcolo, poi lunedì scorso ha pubblicato un breve esito della sua seconda analisi: con il ricorso a due diverse metodologie suggerite da Hall, venivano fuori salari medi molto più alti. “Con il primo metodo – ha scritto Zoepf – e seguendo il consiglio di Hall, il guadagno medio al netto delle spese sale a 8,55 dollari l’ora. Per il 54% dei conducenti è inferiore al salario minimo del 2016 nel loro Stato. L’8% degli autisti, invece, addirittura perde denaro”. Poi usando il secondo metodo d’indagine, sempre consigliato dall’economista di Uber, arriva a un altro risultato: “Il profitto medio sale a 10 dollari l’ora”. Ma per il 41% dei conducenti resta inferiore al salario minimo. La percentuale di chi ci perde è al 4%.
Lo studio ha allarmato i piani alti di Uber: l’amministratore delegato Dara Khosrowshahi, arrivato per ripulire l’immagine di Uber dopo mesi di scandali e problemi, ha scritto su Twitter: “MIT = Mathematically Incompetent Theories (at least as it pertains to ride-sharing)” ovvero “Mit, Teorie Maticamente non corrette (almeno per quanto riguarda il ride-sharing)” e ha citato studi di altre università Usa che posizionavano i ricavi attorno ai 20 dollari orari.
Un dibattito 2.0 tra economisti, quindi, su dati che peròtrebbero essere direttamente misurabili. “La trasparenza e la riproducibilità sono alla base di ogni sforzo accademico – ha concluso il ricercatore del Mit – La rilevazione smentita da Hall e Khosrowshahi era un’ipotesi sulle entrate effettuata in assenza di dati pubblici e a fronte della scarsità di studi indipendenti al di fuori delle analisi di Uber”. Lo studioso ha così chiesto all’azienda di rendere disponibili i dati sugli autisti e i loro profitti.
Il tema è delicato per l’azienda. A gennaio 2017 negli Usa Uber ha pagato alla Federal Trade Commission 20 milioni di dollari per un accordo che mettesse fine a un contenzioso sulla differenza tra il guadagno promesso ai suoi autisti e quello realmente incassato. All’inizio la compagnia aveva prospettato addirittura guadagni pari a 74 mila dollari l’anno a San Francisco, 90 mila a New York. A novembre scorso il tribunale del lavoro di Londra ha invece respinto il ricorso della società e stabilito che a due dei suoi autisti venissero riconosciuti parte dei diritti di norma garantiti ai lavoratori dipendenti (Uber non li considera come tali). Il rischio è che queste cause si trasformino in una valanga di ricorsi. E Uber, al momento, non può permetterselo.