Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2018
Trump e Kim. Tutti i rischi e le incertezze dopo il «colpo mediatico»
Il primo vertice della storia tra un presidente americano in carica e un leader nordcoreano dovrebbe tenersi a maggio poco dopo il terzo summit intercoreano, previsto intorno a fine aprile alla Peace House del villaggio di confine di Panmunjom. È il luogo che a molti esperti sembra il più probabile per i colloqui tra Trump e Kim, anche se circolano ipotesi alternative. I sudcoreani sembrano preferire l’isola di Jeju, che hanno già designato come isola della pace mondiale. La Svizzera si è detta disponibile a fare da ospite. Difficilissimo che Kim – che non si è mai mosso dal suo Paese da quando ha assunto il potere – possa andare a Washington, e improbabile che il titolare della Casa Bianca possa cercare di stupire ancora il mondo recandosi a Pyongyang.
Di sicuro, un altro presidente avrebbe preso tempo prima di accettare l’invito di Kim, se non altro allegando la necessità di consultazioni interne ed esterne. Si è trattato invece di una mossa in puro stile Trump, istintiva e senza troppe riflessioni, basata sull’estrema fiducia nella bontà di un approccio irrituale che sfida le convenzioni politico-diplomatiche, con un occhio alla sensazionalità dell’effetto mediatico spendibile anche sul fronte interno.
Su questioni molto controverse, un vertice tra leader di solito rappresenta un punto di arrivo il cui annuncio viene fatto quando già l’esito appaia relativamente predeterminato. In questo caso, invece, Trump ha subito twittato sul «grande progresso fatto», sia pure con la cautela che «le sanzioni resteranno in vigore fino al raggiungimento di un accordo». Logico che le reazioni degli esperti spazino da uno scetticismo di fondo a un cauto ottimismo, fino alla sottolineatura dei rischi di una successiva rottura. «La decisione di Trump di incontrarsi con Kim è un grande azzardo strategico che non condurrà alla denuclearizzazione della Corea del Nord – afferma una nota di Eurasia Group – piuttosto, rafforzerà la statura e la legittimazione del regime di Kim, dandogli più tempo per sviluppare il suo arsenale nucleare e consentendogli di ricercare con più efficacia un sollievo dalle sanzioni».
Una cartina al tornasole dei non certo unanimi entusiasmi sta nell’atteggiamento del Giappone, che è parso spiazzato dalla rapidità degli eventi: teme di essere completamente tagliato fuori dai processi negoziali e soprattutto paventa la possibilità di un accordo che non faccia cessare la minaccia nordcoreana alla sua sicurezza nazionale (anche se magari eliminerebbe la minaccia diretta al territorio continentale americano). Dopotutto, a provocare una inversione a U sulla linea dura anti-negoziati degli alleati è stata solo una dichiarazione verbale di Kim – riportata a Trump dal consigliere per la sicurezza nazionale sudcoreana – sulla sua disponibilità a discutere di denuclearizzazione: a Tokyo, questo non appare un impegno né qualcosa di particolarmente significativo,tanto più alla luce di quanto successo nelle precedenti trattative(in cui il Nord strappava concessioni offrendo poco e rimangiandosi in seguito anche quel poco).
Non a caso il premier Shinzo Abe – poco consolato da una telefonata di Trump posteriore alla decisione sul summit – si è subito autoinvitato a Washington in aprile per non apparire come un fattore ininfluente. Secondo l’analista Brad Glosserman, che vive in Giappone, un problema è che Trump non si rende conto delle complessità della questione, a partire dalla divergenza di opinioni su cosa voglia dire «denuclearizzazione» della penisola: per Usa e Giappone significa qualcosa di «completo, verificabile e irreversibile» da parte del Nord, mentre l’obiettivo di Pyongyang sarebbe quello di farsi riconoscere almeno un possesso di fatto di un arsenale nucleare (alla Pakistan), oltre a cercare di ottenere che il Sud non sia più sotto la tutela militare e l’ombrello nucleare Usa. Il ministro della Difesa Itsunori Onodera ha sottolineato che perché ogni dialogo abbia significato il Nord debba fare «azioni concrete verso la denuclearizzazione». Scontato che le trattative saranno lunghe, molti temono che Pyongyang possa portare avanti in segreto i suoi programmi militari, cercando di ottenere un allentamento delle sanzioni in cambio di parole. All’ottimismo della narrativa promossa dal “trumpismo” – secondo cui Kim si sarebbe piegato a trattare grazie all’efficacia delle nuove sanzioni e alla credibilità della minaccia di attacco – fa riscontro la cautela di chi sottolinea come l’Amministrazione sia carente di esperti e di esperienza in negoziati che si prospettano ancora più difficili di quelli del team Obama con l’Iran.