La Stampa, 10 marzo 2018
Flat tax. Per dare qualcosa ai poveri i ricchi avranno sgravi enormi
Il primo ostacolo a realizzare una «flat tax» sarebbe nell’elettorato popolare della Lega. Volendo offrire benefici sensibili ai cittadini a reddito medio-basso, la nuova aliquota unica dell’Irpef andrebbe fissata a un livello assai modesto, e accompagnata da ampie esenzioni. Dunque costerebbe moltissimo: circa 60 miliardi di euro, un terzo dell’intero gettito Irpef attuale.
Se da chi ha votato centro-destra viene una massiccia, diffusa richiesta di meno tasse, la «flat tax» non è lo strumento più efficace. Per dare 80-100 euro al mese a una famiglia media occorre sgravare di 800-1000 al mese il 10% più ricco. E poi l’art. 53 della Costituzione stabilisce che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività»: chi più ha deve in proporzione pagare di più.
Se un sistema di tassa piatta è ben congegnato, con un’ampia detrazione sulla fascia più bassa di reddito, ribatte Nicola Rossi ex presidente dell’Istituto Bruno Leoni, pensatoio neoliberista, «la Costituzione è rispettata. Secondo me poi dovrebbe accompagnarsi a un riordino degli strumenti di assistenza sociale, anche nella direzione indicata dal M5s con il reddito di cittadinanza».
Nella versione dell’Ibl, la meglio articolata in circolazione, la perdita di gettito di una Irpef piatta al 25% (contro il 15% promesso dalla Lega per il motivo di cui sopra, e il 23% di Forza Italia) sarebbe in parte compensato con un rialzo dell’Iva dall’attuale 22% al 25, osteggiato dai commercianti che pure nella base del centro-destra contano.
L’idea ha una lunga storia negli Stati Uniti. Fu una moda prepotente al tempo di Ronald Reagan, il quale però si fermò a due aliquote. Negli anni si è indebolita. All’interno del Partito repubblicano Usa fu discussa nelle primarie del 2012, poi lasciata cadere. Nelle primarie del 2016 l’ha sostenuta solo Ted Cruz, suscitando scarso interesse.
Nel mondo, la tassa piatta si è rivelata utile ai Paesi che uscivano dal comunismo. Privi di amministrazione tributaria, con scarse disuguaglianze sociali, senza imprenditori sperimentati, cercavano così di stimolare la voglia di guadagno. Parecchi di essi l’hanno ancora. Altri, i più ricchi come Cechia e Slovacchia, ma anche Ucraina e Albania, sono poi passati a due aliquote.
Tra i Paesi avanzati, l’unica ad aver provato è l’Islanda nel 2007; dopo tre anni è tornata indietro. La «flat tax» attraeva con la speranza che i più ricchi fossero incentivati a produrre di più, con successivi benefici per tutti. No: come ha scritto Carlo Cottarelli su questo giornale, anni di studi del Fondo monetario internazionale non ne offrono alcuna prova.
Anzi oggi il Fmi è passato a consigliare l’opposto: imposte più progressive per soccorrere i perdenti della globalizzazione. Insiste comunque Nicola Rossi: «La flat tax sarebbe un’occasione unica per costringere a quella revisione della spesa che la politica non ha mai osato; proprio perché, qui concordo con Mario Monti, farla in deficit sarebbe pericoloso».
Soprattutto nell’ipotesi che si rivoti a breve, concentrare gli sforzi sull’aliquota unica attrae poco il Sud. E perciò probabile che la proposta fiscale annunciata ieri da Matteo Salvini si fermi a un passo intermedio; ad esempio, ridurre il numero di aliquote dalle attuali 5 con sgravi meglio ripartiti.