La Stampa, 9 marzo 2018
Non si uccidono così anche le statue? A Torino una mostra tra archeologia e arte contemporanea
L’ultima vittima è recente, il tempio neo ittita di Ain Dara, 1300 a.C., finito il 26 gennaio sotto il bombardamento turco sulla città curda di Afrin: polverizzato con i suoi monumentali leoni di basalto. E sì, anche le statue muoiono: spesso, ma non solo, di morte violenta.
«Anche le statue muoiono» è il titolo di una mostra intelligente e coraggiosa che si apre oggi a Torino – curata da Irene Calderoni, Stefano De Martino, Paolo Del Vesco, Christian Greco, Enrica Pagella e Elisa Panero – con base al Museo Egizio e diramazioni non secondarie alla Fondazione Sandretto e ai Musei Reali. Coraggiosa (auguri!) perché per nulla spettacolare ma piuttosto concettuale, e perché fa appello non alle emozioni ma alla riflessione, mettendo in dialogo archeologia e arte contemporanea (una convergenza spesso registrata negli ultimi tempi, come rileva Salvatore Settis nell’introduzione al catalogo curato da Caterina Ciccopiedi per Franco Cosimo Panini).
Nella prima sala della parte ospitata all’Egizio, nell’ala all’ultimo piano intitolata a quel Khaled al-Asaad massacrato dall’Isis nel vano tentativo di salvare dalla morte i monumenti della sua Palmira, nove stampe fotografiche di Mimmo Iodice, dall’opera Anamnesi del 2014: riproducono i volti di altrettante statue classiche, bocche ablate, nasi smangiati, fronti erose. Ma quel che soprattutto colpisce sono i loro sguardi: occhi desolati, ammonitori, sbarrati su di noi e sulle catastrofi della loro stessa storia.
Dentro una teca
Sono molteplici gli accidenti che possono occorrere nella vita di una statua: gli insulti del tempo, la mano dell’uomo. Nell’ultima sala, il volto ligneo di Upuautemhat, un dignitario egiziano del Medio Regno (circa 1900 a.C.), non ha più gli occhi, strappati via in età antica per recuperare le pietre dure e i metalli di cui erano fatti, ma forse anche per impedire al personaggio raffigurato di vedere, nella tomba, il saccheggio operato intorno a lui dai predatori e prevenirne la magica potenza vendicativa.
La biografia degli oggetti è il filo conduttore della mostra: dal momento in cui sono stati prodotti, al loro utilizzo, all’abbandono e alla morte e distruzione, fino alla seconda vita, quando sono stati recuperati dagli archeologi e sono entrati in una collezione museale. Ma proprio qui si annida una criticità, su cui puntano il dito gli artisti d’oggi: che ne è di un reperto archeologico quando viene estrapolato dal suo contesto e finisce dentro una teca?
È la domanda implicitamente suggerita dalla sculture dell’artista egiziana Iman Issa, Heritage Studies (2015), astrazioni estreme di elementi architettonico-decorativi egizi e islamici, accompagnate da paradossali didascalie-fake. E la denuncia si fa esplicita nell’installazione del libanese Ali Cherri, Fragments II (2016), che su un asciatico piano retroilluminato, dove tutto è appiattito e spersonalizzato, allinea una molteplicità di manufatti archeologici di provenienza disparata, sovrastati da un gufo reale impagliato con le ali spiegate, che un po’ ricorda l’aquila dello stemma statunitense e allude alla rapacità mercantile dell’Occidente nei confronti del passato.
Feticci senza storia
Perché, inevitabilmente, è l’approccio occidentale che viene messo in discussione, come già era stato nel film-documentario realizzato nel 1953 da Alain Resnais a Chris Marker Les statues meurent aussi – a cui questa mostra si richiama nel titolo – che evidenziava gli effetti mortiferi della musealizzazione sugli oggetti dell’arte africana. E così i percorsi delle tre sedi espositive diventano l’occasione per una riflessione dell’archeologia su sé stessa e sulle proprie pratiche. Il museo, fa notare il direttore dell’Egizio Christian Greco, è per eccellenza il luogo della conservazione; ma è nello stesso tempo, contraddittoriamente, il luogo della distruzione, nella misura in cui riduce i reperti a feticci decontestualizzati di cui ignora la storia.
Ali Cherri, nella video-installazione Petrified (2016), va oltre: «Quando salviamo una rovina dal suo declino, non stiamo forse rinnegando la sua stessa condizione di rovina?». Questione spinosa: in corrispondenza delle foto di Iodice sono esposte in una vetrina le statuette di calcare dipinto con i volti di governatori locali egizi, alcune molto frammentarie, altre più o meno ricomposte. Ed ecco un altro spunto di riflessione: nella nostra parte di mondo la riparazione delle ferite è un aspetto inseparabile della conservazione; nelle culture extra-occidentali, invece, una ferita si guarisce esibendola, mostrandone le cuciture e i punti di sutura. Come ci ricorda il franco-algerino Kader Attia con i suoi vetri colorati fatti a pezzi e presentati disordinatamente, senza alcuna velleità di restituzione dell’ipotetico aspetto originario – Untitled (Sacred) e Untitled (Violence), entrambe del 2016.
Ma la violenza sui relitti del passato ha molte facce. C’è quella dell’appropriazione (le scritte incise sulle statue colossali di Ramesse II e di Sethi II, vanto dell’Egizio, dai loro «scopritori» ottocenteschi, in un’epoca di gara tra i consoli europei per accaparrarsi le reliquie antiche). C’è quella anche del semplice passaggio dei visitatori che tra Otto e Novecento hanno pensato bene di lasciare le loro firme a Persepoli sulla «Porta di tutte le Nazioni» (documentate alla Fondazione Sandretto nella serie fotografica Signatures, 2007-12, del tedesco Simon Wachsmuth). C’è lo smantellamento e il trasferimento dalla Giordania a Berlino, al Pergamonmuseum, di un’intero edificio, una sezione del palazzo omayyade di Qasr al-Mshatta (il cui motivo ornamentale della facciata è riprodotto sulla tenda, lunga oltre 20 metri, della messicana Mariana Castillo Deball, esposta nel Salone delle Guardie Svizzere di Palazzo Reale).
Corto circuito
E c’è, naturalmente, la violenza distruttiva: come quella che si è scatenata all’interno del Museo Egizio del Cairo ai tempi delle rivolte popolari del 2011, evocata ancora alla Fondazione Sandretto da Kader Attia nell’installazione Arab Spring (2014), formata da 16 teche su cui l’artista ha infierito con pietre e mattoni, lasciandone sparsi a terra i frammenti.
Corto circuito finale. Nella parte di mostra ospitata all’Egizio sono esposti i grandi rilievi fotografici realizzati nel 2002 a Ninive, nel «Palazzo senza Eguali» di Sennacherib (VII secolo a.C., epoca neo assira) dal Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino: si vedono meravigliosi bassorilievi con soldati, principi, motivi vegetali, ma qua e là si scoprono pure con angoscia i segni delle amputazioni destinate a alimentare i musei occidentali. È questo il paradosso: a Ninive quelle meraviglie non esistono più, distrutte nella tragedia che ha inghiottito l’Iraq; «sopravvivono» le parti «uccise» (decontestualizzate) nei nostri musei. Che conservando distruggono, ma distruggendo qualche cosa conservano.