il Giornale, 9 marzo 2018
È l’ora della rivincita degli schiavi, riavranno un pezzo di Amazzonia
Sembra un segno del destino o forse è solo la storia che permette alle sue vittime di riscattarsi. A 130 anni dall’abolizione della schiavitù in Brasile (ultimo paese delle Americhe ad averla bandita nel 1888) i discendenti degli ultimi schiavi sembrano avere trovato finalmente giustizia. Grazie a quella stessa terra in cui i loro antenati in catene erano costretti al lavoro forzato. È successo infatti che il governatore dello stato del Pará, Simao Jatene abbia finalmente riconosciuto, con tanto di documento ufficiale, la proprietà di oltre 220mila ettari di Amazzonia a una piccola comunità di discendenti di schiavi, fuggiti 400 anni fa dai loro padroni e fondatori di un villaggio, Cachoeira Porteira. Una battaglia a colpi di carte bollate e processi durata ventitré anni ma il cui esito rappresenta oggi una svolta per la storia stessa dell’intero Paese.
Già, perché la schiavitù rimane ancora oggi la grande macchia del Brasile che in realtà ha sempre avuto tutto per essere un paradiso (non ha terremoti, la terra è generosa, il clima ottimo) ma che non è mai riuscito a esserlo, impregnato da sempre da grandi differenze sociali, molta povertà, sottosviluppo endemico e tantissima violenza. Tra il 1600 e il 1850 solo nel paese verde-oro arrivarono 4,5 milioni di schiavi. Molti morirono di stenti e malattie, altri riuscirono a sopravvivere al servizio di fazenderos senza scrupoli che li impiegavano nelle piantagioni di caffè e di canna da zucchero. Lavori durissimi sotto il sole cocente in condizioni davvero disumane. Basta visitare una qualsiasi fazenda antica per rendersi conto della rigida divisione per classi.
I ricchi padroni vivevano nella magione, chiamata Casa Grande, gli schiavi nel Senzala, ovvero depositi o scantinati senza finestre, se non delle grate in alto per impedirne la fuga. In molti casi gli schiavi partecipavano sì della vita dei loro padroni, alcune giovani ne diventavano addirittura amanti ma in generale le condizioni erano durissime. Tanto che in tanti quando potevano fuggivano, scappando per chilometri e arrivando poi a fondare piccoli villaggi chiamati appunto quilombos. Oggi si contano sedici milioni di quilombolas, ovvero di discendenti di schiavi fuggiti che vivono in 5.000 quilombos. Ecco, Cachoeira Porteira è proprio un antico quilombo e questo spiega la portata simbolica dell’avere finalmente riconosciuto ai suoi abitanti la proprietà della terra, proprio loro i cui antenati erano invece proprietà esclusiva dei fazenderos. Anche perché finora in tutto il Brasile sono solo circa duecento i quilombos che si sono visti restituire la proprietà della terra.
Questo rivoluzionario gioco delle parti non sarà per fortuna un caso isolato. Anzi sembra proprio che il Brasile si stia impegnando nel rimarginare queste sue antiche ferite. Già la costituzione del 1988, post-dittatura militare, riconosceva il diritto di proprietà ai quilombolas così come agli indios per le terre dei loro antenati. E l’ex presidente Lula nel 2003 cercò di regolamentare la procedura di restituzione con un apposito decreto fino alla mazzata finale del presidente Michel Temer che, forte dell’appoggio dei latifondisti, ha dichiarato incostituzionale il decreto di Lula. Per fortuna però l’8 febbraio scorso il decreto del 2003 è stato nuovamente convalidato e dichiarato costituzionale dalla Corte suprema brasiliana (Stf).
«Sembrava impossibile che la nostra storia potesse avere un lieto fine – racconta Ivanildo Souza, a capo dell’associazione quilombola di Cachoeira Porteira – in molti ci attaccavano ma la terra era fondamentale per noi». Già, perché come spiega bene Erivaldo Oliveira, a capo della Fondazione culturale Palmares «se non si ha la proprietà della terra non si può usufruire delle politiche pubbliche». Insomma uno stato di invisibilità durato secoli che ora sembra iniziare a spezzarsi.
Il cammino davanti, tuttavia, è ancora arduo. Secondo Juliana de Paula, avvocato dell’Istituto socioambientale «perché ci sia proprietà deve esserci prima di tutto la demarcazione dei terreni che viene fatta da un istituto governativo specializzato in questo, l’Incra». Il problema però è che la recente crisi in cui è precipitato il Brasile ha ridotto le disponibilità economiche dell’Incra che, secondo la De Paula «non avrebbe così i fondi per demarcare le terre quilombolas». A questo si aggiunge una difficile relazione con i latifondisti. Nel solo 2017, quattordici quilombolas sono stati uccisi, rispetto agli otto del 2016 e a un solo caso nel 2015, come se davvero la questione terra si facesse sempre più critica.
Il problema dei quilombos non è comunque solo rurale. Rio de Janeiro per esempio, capitale del Brasile dal 1873 al 1960 presenta al suo interno, nascosti agli occhi dei turisti e anche a molti dei suoi abitanti, tre quilombos che lottano ancora per vedere riconosciuto il loro diritto alla proprietà terriera. Il suo quilombo più famoso, Pedra do Sal, vicino al porto ha un valore simbolico importantissimo: era qui, infatti, che approdavano gli schiavi dopo lunghe ed estenuanti traversate dall’Africa. Oggi di quel passato durissimo restano i riti afrobrasiliani, come il Candomblé, che vengono celebrati in apposite case al riparo da occhi indiscreti. E, curiosità, anche il paese natale di Lula, Garanhus nel Pernambuco, nasce proprio intorno a una comunità quilombola. Forse è per questo che il decreto dell’ex presidente è riuscito a sopravvivere ancora oggi, nonostante tutto.