Avvenire, 9 marzo 2018
E i cappellani cambiarono la guerra. Un bel saggio storico
«Tra gli esserciti fa il demonio la sua raccolta», scriveva il gesuita Giacinto Manara in un manuale per il conforto dei condannati a morte del 1658, un decennio dopo la fine della Guerra dei Trent’anni. Dunque: in che modo condurre soldati e ufficiali all’osservanza religiosa? «Nelli esserciti cattolici è moralmente impossibile che non vi sian sacerdoti tanto secolari quanto regolari, e tutte le compagnie è consueto c’habbiano li suoi cappellani, come padri spirituali...», rispondeva lo stesso Manara. Un secolo prima la presenza regolare di cappellani negli eserciti cattolici era stata poco più che un auspicio «Ai sacerdoti si addice andare in guerra (…), non per combattere con il ferro, perché le loro armi sono le lacrime e le preghiere (…), ma per amministrare i sacramenti e le opere di misericordia ai feriti, confessandoli e dando loro la comunione, prendendosi cura di loro e consolandoli, sotterrando i morti e pregando Dio per le loro anime, tutte cose pietose e molto necessarie in guerra. E non solo per questo (…), ma anche per esortare e animare quelli che combattono»: così, già nel 1555, il religioso portoghese Fernando Olivera, convinto della liceità del mestiere delle armi per ogni cristiano combattente con coscienza retta, e distante dalle esortazioni ireniche di Erasmo che all’inizio del’500 aveva rifiutato il «Dio degli eserciti» e bollato teologi e pontefici rei di avere legittimato la guerra – ora santa ora giusta – con citazioni da Agostino, Bernardo di Chiaravalle, Tommaso d’Aquino.
Nel rapporto tra i cristiani e la guerra, è proprio il XVI secolo l’epoca della crisi che squaderna diverse sensibilità e prepara svolte. Se per Machiavelli il cristianesimo indeboliva i soldati sostituendo l’umiltà alla gloria come funzione civile della religione, per il giurista protestante Alberico Gentili i teologi non dovevano più occuparsi di guerre, essendo queste giuste quando dichiarate da un’autorità pubblica legittimata a farlo. E se l’umanista Juan Ginés de Sepulveda difendeva l’accordo tra la professione delle armi e la fede cristiana, ispirando la rinascita dello stoicismo moderno e offrendo basi alla legittimazione dell’imperialismo coloniale, Francisco da Vitoria (il difensore degli indios) dava voce a dubbi tali da scuotere la dottrina cristiana della guerra e la pratica delle conversioni forzate. Nel frattempo diventava oggetto di discussione non solo il diritto a intraprendere una guerra, ma pure la sua gestione sul campo.
I temi e le linee ora richiamate, introducono il lettore nel denso saggio Dio in uniforme, che lo storico Vincenzo Lavenia dedica al rapporto tra clero cattolico ed esperienza militare tra il XVI-XVII secolo e l’alba del XX. Un arco cronologico che, per iniziativa dei gesuiti, si avvia con le prime cappellanie stabili e regolarizzate nel mondo militare, nonché i primi catechismi destinati ai soldati (con le loro regole di comportamento per condurre la guerra in modo cristiano e legittimo), mentre si riconfigura il rapporto tra pietà cristiana e valore militare (e persino la sciagura della guerra può trasformarsi in risorsa spirituale), sino alla sacralizzazione dei conflitti, palese già all’inizio del ’900 specialmente con la Grande Guerra (che chiama alla mobilitazione sacerdoti e seminaristi cattolici insieme a pastori protestanti e rabbini).
Se è vero che, per la prima età moderna, la contrapposizione tra islam ed Europa cristiana, le aggressioni coloniali in aree ’pagane’, i conflitti sanguinosi tra cattolici e protestanti dal 1532 al 1648, hanno dato origine a tanti lavori monografici (su Lepanto o Vestfalia, la Guerra dei Trent’Anni o le varie guerre civili in Europa, ecc.), il libro di Lavenia non solo traccia un esauriente quadro complessivo della «presenza religiosa» dentro i più diversi scenari dell’antica festa crudele (per riprendere il titolo di un libro di Franco Cardini), sino alla sua istituzionalizzazione negli eserciti nazionali (modellatasi in ambito cattolico come una sorta di grande diocesi non senza conflitti con la struttura ordinaria della Chiesa), ma segue anche l’evoluzione dei modelli di ’soldato cristiano’ che l’hanno accompagnata. Soffermandosi sulla storia del lessico del Miles Christianus, l’influenza del clero in guerra, la pedagogia e la teologia bellica, l’operato delle missioni castrensi, tramaterie di giustizia e di coscienza, culto e assistenza spirituale (e sanitaria).
In ogni caso, mentre era in atto la lunga rivoluzione militare in Europa, sostenere il bisogno di combattere per la fede «non significava solo giustificare la violenza adattando l’ethos crociato e cavalleresco ai moderni conflitti in cui le armi da fuoco, le fortificazioni, gli assedi e la fanteria giocarono un ruolo inedito», afferma Lavenia. «Si trattava di proporre o imporre una disciplina esteriore e interiore atta a incanalare e a mettere a frutto la brutalità e, per altro verso, a moderare l’inclinazione verso i peccati per i quali i soldati erano dileggiati». L’autore, preso atto del fallimento di questi intenti, rileva come gli sforzi di disciplinamento ebbero comunque effetti: favorendo lentamente «la stesura di ordinanze; l’istituzione di caserme, scuole e tribunali militari; l’introduzione di arruolamenti regolari» insieme all’affermarsi della «cura castrense» con tutto il suo apparato e strumentario. Il percorso del volume attraversa poi il ’700 e la dilagante secolarizzazione negli eserciti insieme alle seduzioni dell’illuminismo radicale e della massoneria, sino alla nuova svolta con la Rivoluzione francese, seguita dalla militanza per la Repubblica che sostituì quella per la fede. Infine la Grande Guerra, durante la quale nazionalismo e linguaggio religioso si fusero e non pochi preti e frati combatterono, scrissero, operarono come cappellani: tentando di conquistare gli eserciti europei alla causa della Chiesa romana, cedendo spesso all’ethosnazionalista e bellicista del tempo. Sino a quando il morire per la patria sostituì l’appello a combattere nel nome di Dio.