Affari&Finanza, 5 marzo 2018
Dai frigoriferi Indesit alle matite Fila l’Italia in lite delle dynasty familiari
La scena è questa. Milano, ultimo piano del Pirellone, anno 1963. Leopoldo Pirelli ha già assunto da tempo la guida dell’azienda di famiglia dal papà Alberto, colpito dai malanni dell’età. Il documentario “Capitani d’industria” girato da Giulio Macchi, uno dei pionieri della divulgazione scientifica in Rai, mostra l’ufficio che condividono, con due scrivanie, una di Alberto, l’altra di Leopoldo. Il segnale è chiaro. La competenza per guidare un’azienda che sta cavalcando l’epopea dell’industria della gomma si trasmette di padre in figlio in un solo modo: lavorando insieme. In Italia, a dispetto di questo lontano insegnamento, le svolte generazionali spesso presentano però molte insidie. I passaggi ereditari e le liti familiari fanno non di rado vacillare industrie grandi e piccole, o i programmi che si sono date. <p>Luca Piana segue dalla prima L’ ultimo caso lo ha rivelato “Repubblica” giovedì scorso e riguarda le matite Fila, una delle piccole eccellenze dell’Italia nel mondo, un fatturato di 391 milioni di euro nei primi nove mesi del 2017, più 26,6 per cento rispetto a un anno prima. Gli azionisti di controllo sono Massimo Candela, che la gestisce dal 1993 investendo gran parte dei profitti nello sviluppo, e la sorella Simona. I pochi dividendi distribuiti e la prospettiva di un’ulteriore acquisizione per accelerare la crescita hanno però spinto Simona a rivolgersi prima in tribunale per chiedere una remunerazione del capitale più alta, poi a cercare un compratore per il 35 per cento che possiede nella holding non quotata della società. Alla fine Massimo sarà costretto a cercare i quattrini per esercitare la prelazione sulle quote della sorella, nella speranza di chiudere il dissidio. Gli esempi di passaggi generazionali difficili o di scontri familiari sono ripetuti nel tempo. Angelo Rizzoli portò nelle mani della loggia P2 e poi al dissesto la casa editrice fondata dal nonno, una delle più importanti d’Italia. Margherita Agnelli citò in giudizio la mamma e i fiduciari del papà Gianni per contestare la suddivisione dell’eredità, studiata appositamente per mettere un uomo solo, John Elkann, al vertice della Fiat. Alessandro Benetton ha tentato di rilanciare il marchio di abbigliamento di famiglia ma ha dovuto abbandonare per la scarsa autonomia che sentiva di avere e, ora, è toccato al papà Luciano, 82 anni, riprendere le redini. I quattro figli di Vittorio Merloni hanno venduto l’Indesit a Whirlpool, perché rimetterla in sesto richiedeva pesanti investimenti, e tra loro non c’era accordo. Bernardo Caprotti aveva suggerito nel testamento di vendere la sua Esselunga, indicando come acquirente prediletto il gruppo olandese Ahold. Leonardo Del Vecchio ha scelto un’opzione ancora diversa: fondere Luxottica nel gruppo francese Essilor. Quando l’operazione verrà completata, il nuovo colosso avrà sede a Parigi, nessun erede di Leonardo sarà al vertice e il focus diventerà sempre meno italiano. Su queste vicende e sulle innumerevoli storie di aziende più piccole in rovina dopo la successione ereditaria si sono sedimentati nel tempo alcuni luoghi comuni. Il primo è che la dimensione familiare sia uno dei punti deboli dell’industria italiana, perché la genialità nel fondare o dirigere un’azienda non si trasmette con il Dna. Il secondo è che spesso le aziende restino piccole perché le famiglie che le conducono non sanno farle crescere o non ne hanno interesse. Il mito da contrapporre all’industria Made in Italy sarebbe quello della public company anglosassone, dove gli azionisti incassano i dividendi e la gestione è affidata in esclusiva ai manager. E quando un socio non condivide le strategie, vende. In realtà, negli ultimi anni, queste credenze si sono incrinate. Il Credit Suisse ha pubblicato un’analisi sull’andamento di mille imprese controllate da famiglie a livello globale, rilevando che nel decennio 2006-2016 hanno fatto meglio delle altre in termini di crescita dei ricavi e dei profitti, di innovazione e di sostenibilità finanziaria. «Sia nei Paesi maturi che in quelli emergenti, le imprese familiari danno un contributo sostanziale allo sviluppo economico e rappresentano un fondamento determinante per una crescita sostenibile e di lungo termine», hanno scritto gli analisti della banca svizzera. Non è nemmeno vero che in Italia le imprese familiari pesino più che altrove. Qui i dati non sono freschissimi, ma restano molto interessanti. Li ha pubblicati la Banca d’Italia in uno rapporto del 2013 intitolato “Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi”. La quota delle imprese tricolori che sono di proprietà familiare è pari all’85,6 per cento del totale: un livello più alto rispetto al Regno Unito e alla Francia, che viaggiano attorno all’80 per cento, ma simile a quello della Spagna (83 per cento) e inferiore a quello della Germania, che raggiunge invece l’89,8 per cento. Se l’industria familiare è una solida realtà, in Italia come all’estero, perché dunque i passaggi generazionali ci sembrano così critici? Una possibile risposta la si può intuire nello stesso studio della Banca d’Italia, dai dati che misurano quanto la remunerazione dei manager sia legata ai risultati. In Italia è già bassa la media generale: il 16,4 per cento delle imprese, contro il 48,9 per cento della Germania e il 45 della Francia. Ma la percentuale crolla ancora di più se si considerano solo quelle con management di famiglia: qui i risultati contano solo in dieci aziende su cento, contro le 31 della Germania e le 33 della Francia. Ecco dunque un limite: mantenere in casa la gestione può rendere meno esigenti i soci, che concedono ai loro familiari coinvolti nelle decisioni quotidiane stipendi slegati dagli obiettivi. Le statistiche non lo dicono ma è facile intuire che, nel lungo periodo, atteggiamenti di questo genere non facciano bene all’azienda e possano alimentare le tensioni familiari. Poi subentra un fattore legato alle dimensioni piccole e medie di molte imprese italiane. Lo sottolinea Fulvio Coltorti, che insegna Storia economica all’Università Cattolica: «Se i manager di un’impresa di piccole o medie dimensioni sono inadeguati, è il mercato a decretarne la fine: l’impresa fallisce e al suo posto ne subentra un’altra, più efficiente. Nelle grandi imprese, invece, entra sempre in gioco il fattore “too big to fail”: gli interessi terzi a non farla fallire sono più rilevanti, a cominciare da quelli delle banche che l’hanno finanziata. E allora si tende a premere per un cambio di management». I rischi legati al passaggio generazionale o ai dissidi familiari, dunque, non vanno sottovalutati. Non sono un’esclusiva delle aziende più piccole, e nemmeno di quelle italiane. Ma in Italia è forse ancora poco diffusa l’idea di prepararsi per tempo, come fecero invece Alberto e Leopoldo Pirelli alla fine degli anni Cinquanta. Una differenza rispetto alla Germania la coglie Guido Corbetta, che insegna strategie delle imprese familiari alla Bocconi, nella minore diffusione di quelle istituzioni che possono attenuare le divergenze. Sono i trust o le fondazioni a cui fanno capo molte aziende, che servono per spostare su un altro livello l’interlocuzione tra i familiari: «Anche in Germania ci sono i conflitti ereditari ma possono essere affrontati in tempi più rapidi, senza conseguenze deflagranti per le imprese», spiega Corbetta. In Italia si è mosso in questa direzione Giorgio Armani, ma le soluzioni possono essere diverse, anche meno complesse. Corbetta racconta che in alcune famiglie di imprenditori europei – i Mulliez dei supermercati Auchan, gli Swinkels della birra Bavaria – è diffusa l’abitudine di trovarsi una volta l’anno in una grande riunione, così da favorire il dialogo. «C’è un’unica possibilità, che tutto vada bene: preparare il terreno per tempo, sia a livello societario che di rapporti personali. Affidarsi al commercialista di fiducia per trovare una soluzione, quando il conflitto è ormai esploso serve a poco».