Affari&Finanza, 5 marzo 2018
Guerre commerciali e volatilità dei mercati l’America paga il conto, è fuga dal dollaro
Cina, Russia, India, Iran e altri paesi emergenti cominciano a regolare le loro transazioni nelle rispettive monete senza più “passare” per il biglietto verde. una rivoluzione negli affari con profonde implicazioni politiche e trasformando la volatilità politica in volatilità dei mercati tout court. Ne è una perfetta sintesi la seduta del 1° marzo, quando Donald Trump ha annunciato con il solito tweet prossimi dazi Usa del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio (in precedenza c’erano state gabelle su pannelli solari e lavatrici). In pochi minuti miliardi di dollari di capitalizzazione sono svaporati dal Dow Jones (-2%), il dollaro è scivolato, i Treasury bond sono scattati al rialzo e tutti i paesi rivali degli Usa hanno deprecato la misura, preparando contromosse. Proprio la paura di una sempre maggiore forza dei paesi emergenti, e delle loro iniziative per disintermediare il dollaro come valuta di riserva, è alla base della politica sciovinista di Trump, che da un anno, al motto America first caro agli elettori, sfrutta ogni leva possibile per riguadagnare posizioni: dai dazi in economia all’escalation politico- militare in Corea del Nord e Siria. Il ritorno della volatilità Il ritorno di una volatilità quale non si vedeva da tre anni su tutte le valute e i titoli quotati del pianeta è sia una causa che una conseguenza di queste gigantesche scaramucce. E preoccupa non poco l’Eurotower, soprattutto perché può minare il processo di normalizzazione monetaria in Europa: per tornare sopra lo zero i tassi hanno bisogno di una cornice inflativa adeguata (il “quasi 2%” che predica la Bce). «La recente volatilità nei mercati finanziari, specie nei cambi, merita particolare attenzione per le possibili implicazione sulle prospettive di stabilità dei prezzi», ha aggiunto Draghi, sapendo che un euro innaturalmente forte potrebbe vanificare l’inflazione importata, minando i benefici di tre anni di monetarismo ultraespansivo. Un mese prima, a Davos, Draghi replicò per le rime – e con un certo fastidio, si racconta – al segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin, che irritualmente salutava la debolezza del dollaro come «un bene per il commercio Usa». L’ex banchiere di Goldman Sachs (punto in comune, con Draghi) aveva aggiunto: «Il dollaro è uno dei mercati più liquidi. Dov’è nel breve termine non ci preoccupa affatto», lasciando scivolare il biglietto verde verso 1,25 sull’euro, minimo da tre anni, e forzando il presidente Bce a invitare chi investe a «chiedersi se questo rafforzamento dell’euro è endogeno o se invece è determinato da politiche adottate altrove». A Washington. Draghi è stato buon profeta. I fatti macroeconomici di febbraio hanno confermato che il motore a stelle e strisce marcia meglio di quello europeo, con Pil in progresso del 2,5% annuo e inflazione del 2,1%, e la Fed ha così calendarizzato il quarto aumenti dei tassi nel 2018. L’Europa, che ha una crescita complessiva simile (non in Italia, dove siamo all’1,5%), è però indietro su prezzi e salari (+1,2% tendenziale, la metà in Italia), il che rende difficile rialzare i tassi prima del 2019. Le opposte tendenze ai lati dell’Atlantico hanno un po’ riequilibrato il cambio euro-dollaro nell’intorno di 1,22. Ma i giochi veri, per capire se il dollaro sarà più debole o più forte, non si fanno con Bruxelles: Pechino, Mosca, Teheran, New Delhi, Ankara sono piazze più decisive. Guardando il mappamondo dal lato opposto, Pacifico, molti osservatori dicono che siamo davanti a un indebolimento strutturale causato dalla crescente capacità dei paesi emergenti di sganciarsi dalla valuta di conto globale negli scambi di beni e materie prime. «Per la prima volta da vent’anni vediamo cicli macroeconomici divergenti ai lati dell’Atlantico: gli Usa sono alla fine di un’espansione, l’Europa vi è appena entrata. Sono due fasi che richiedono politiche monetarie diverse: ed è un problema per l’80% del Pil mondiale che risiede fuori dagli Usa», spiega Antonio Pace, gestore del fondo Ms Investcorp Geo Risk. La premessa è che chi investe o fa impresa in dollari ed è “straniero” – poniamo abbia dei costi in euro – per eliminare i rischi valutari deve coprirsi con derivati swap che scambiano il tasso della valuta di origine con tassi dollaro. Il costo per farlo, salato, è il differenziale tra le curve: nel caso citato si paga il Libor mensile sui dollari presi a prestito, e s’incassa l’Euribor a un mese sugli euro prestati. Ma queste due curve oggi divergono: il Libor mensile rende l’1,57%, l’Euribor è a -0,37%. «Le differenti fasi monetarie aumentano la volatilità tra le valute, e i correlati costi di copertura – aggiunge Pace –. Davanti a uno scenario di debolezza strutturale del dollaro, i nuovi Paesi forti fanno sempre più transazioni nelle loro valute, a partire dalle compravendite di materie prime, specie petrolio». Signoraggio diffuso Dal 1971, quando saltò la convertibilità forzosa in oro delle monete, il signoraggio del dollaro si è diffuso. Currency as a new language, titolava anni fa il Financial Times nel descrivere il linguaggio imposto dagli americani al mondo, tramite una piattaforma di attività quotate in dollari dove chiunque volesse investire o comprare materie prime e altro doveva pagare la “tassa dollaro”. Questo privilegio ha permesso agli Usa di stampare moneta illimitatamente, tanto servivano per gli scambi internazionali: e senza curarsi di un debito salito a 20mila miliardi, per il motivo che i Treasury sono stati sempre puntellati dagli acquisti miliardari che i risparmiatori stranieri, cinesi e giapponesi in testa, in cerca di un “porto sicuro” finanziario. A latere, come olio nel meccanismo, c’è il ruolo degli Usa come poliziotto del mondo, con cadenzati interventi militari ovunque e circa 600 miliardi l’anno per finanziare l’inquieta macchina della difesa Usa. Questo mondo, però, sta finendo. Da qualche anno è iniziata la silente de-dollarizzazione del sistema, testimoniata dai dati di interscambio commerciale e dai crescenti episodi di autonomia valutaria. Nel 2012 la Banca Popolare cinese annunciò che non avrebbe più aumentato le riserve in dollari, e prese a valutare l’oro in yuan, rendendo la valuta nazionale convertibile in oro per così commerciarvi il petrolio. Nello stesso anno l’Iran iniziò ad accettare yuan quando vendeva petrolio e gas, diversificazione estesa al rublo nel 2015. Sempre nel 2015 la Cina ha inaugurato il Cips, sistema di pagamenti globali che ha patti di collaborazione con Switf (la piattaforma mondiale sita in Belgio), ma un domani, in caso di uscita della Cina da Swift, può fare da stanza di compensazione per rublo e yuan. Ipotesi non così remote, se l’autunno scorso il bando alla Cina fu proposto dallo stesso segretario di Stato Usa mentre i britannici chiedevano all’Ue di estromettere da Swift la Russia. Nel 2017 Putin ha chiesto ai Paesi Bric di ampliare la platea e i volumi delle valute di riserva alternative. Diligentemente Gazprom, braccio armato del Cremlino nell’export di idrocarburi, già muove il petrolio dall’Artico ai porti europei in rubli, e vende greggio siberiano alla Cina che paga in yuan, come prevede l’intesa da 400 miliardi siglata tra Mosca e Pechino quattro anni fa. Il Venezuela di Maduro, in rotta con gli Usa, rifiuta di accettare dollari se vende petrolio, che ha voluto prezzare con un indice autoctono. Sono le stesse sanzioni occidentali a Stati più o meno “canaglia” ad aver messo spalle al muro Cina, Iran, Russia, Libia, Qatar, forzandone i leader a cercare modalità alternative per gli scambi: «Fra alcuni anni gli occidentali guarderanno indietro e vedranno le sanzioni come il punto di flesso che ha inaugurato il Mondo senza Occidente», ha scritto su Oriental Review Rakesh Krishnan Simha, giornalista apprezzato dalle diplomazie internazionali. La risposta di Trump Un problema nel problema è che Trump non starà a guardare la dissolvenza del dollaro: ciò che ha detto e fatto dal 2017 sullo scacchiere geopolitico (come in Nord Corea, Siria, Qatar, Gerusalemme) pare un itinerario preciso per rimettere al loro posto i rivali asiatici che fanno perno sul ruolo di Cina, Russia e Iran. Dal loro punto di vista, finora i Paesi emergenti sembrano più interessati a un passaggio progressivo delle consegne “valutarie”, senza traumi, anche perché detengono ancora miliardi di titoli e beni in dollari. «È evidente che la leadership nei commerci si sta spostando nelle mani della Cina: ma se Xi Jinping ambisce a un ruolo di primo piano nel governo della globalizzazione dovrà prima consentire la fluttuazione dello yuan, poi svilupparne la capacità di influenzare i mercati finanziari», dice Carlo Altomonte, docente di Politica economica europea alla Bocconi. È una deriva verso nuovi incidenti militari? «Già in passato i tentativi di alcuni paesi come Iran, Russia, Libia, di porsi fuori dall’unità di conto del dollaro non fu tollerata dalle amministrazioni Usa. Se Trump sta davvero cercando di recuperare lo spazio internazionale lasciato libero da Obama, e nel frattempo occupato dai paesi emergenti, ci aspettano momenti di tensione, anche militare».