il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2018
La Bomba rende: i business atomici delle mega-banche
Le armi nucleari non le vuole praticamente nessuno e le finanziano in pochi, ma con risorse crescenti. I produttori navigano in un mare di liquidità, quella che manca per assicurare la sopravvivenza a miliardi di persone nel mondo. Secondo l’associazione insignita con il Nobel per la pace International Campaign to Abolish Nuclear weapons (Ican), la campagna internazionale per l’abolizione delle armi atomiche, tra il gennaio del 2014 e l’ottobre del 2017 questi colossi sono stati “gratificati” con 525 miliardi di dollari di investimenti garantiti da 329 soggetti, fondi e banche soprattutto. Le organizzazioni che mettono soldi in questo settore sono in calo, spiega l’Ican. Ma quelle che continuano a farlo inondano le società con 81 miliardi in più. Lo rivela il rapporto “Don’t Bank on the Bomb” realizzato da Pax, uno dei membri dell’Ican, che analizza i flussi finanziari verso 20 società che si occupano di “produzione, manutenzione e modernizzazione” dell’arsenale nucleare. Fra queste ci sono il consorzio europeo Airbus Group, le francesi Thales e Safran e le britanniche Bae Systems e Serco “sostenute” con 163 miliardi nell’ultimo biennio.
La ricerca rivela come tre istituzioni finanziarie statunitensi – Blackrock, Vanguard e Capital Group – abbiano investito da sole un quinto del totale, 110 miliardi di dollari. Anche i tre principali destinatari sono americani: Honeywell International (159 miliardi negli ultimi due anni), Boeing (oltre 150) e Lockheed Martin (145).
Fra crediti, bond e operazioni azionarie, anche varie organizzazioni europee continuano a puntare su chi sviluppa anche armi atomiche. Il mondo “anglofono” è particolarmente sensibile. Le società Usa dirottano circa 376 miliardi verso il settore, il Regno Unito quasi 34 e l’Australia almeno altri 5. Una trentina di miliardi arrivano dalla Francia attraverso 14 organizzazioni (più della metà dalle sole Bnp Parisbas e Crédit Agricole), una decina dalla Germania (6,6 li mette la Deutsche Bank, di cui Blackrock è azionista), oltre 7 dalla Spagna (2 sono della Societad Estatal de Participaciones Industriales) e un paio dall’Italia (quasi un miliardo e mezzo da Unicredit e poco meno di 600 milioni da Intesa). La neutrale Svizzera ha operazioni in corso con due istituti: Credit Suisse (quasi 800 milioni) e Ubs (oltre 4 miliardi).
Diverse organizzazioni si sono sentite in dovere di puntualizzare e precisare. La Deutsche Bank, ad esempio, ha spiegato di valutare con estrema attenzione eventuali operazioni in questo settore assicurandosi che “riguardino solo le aree che non hanno nulla a che fare con le armi nucleare biologiche e chimiche, le munizioni a grappolo e le mine antiuomo”.
Beatrice Fihn, direttore esecutivo dell’Ican, è stata sferzante: “A chi si chiede chi tragga beneficio delle minacce nucleari di Donald Trump, questo rapporto fornisce la risposta”, ha spiegato. Quelle citate nel rapporto, che ha anche una “hall of fame” (una sezione riservata ai “buoni”: per l’Italia c’è solo Banca Etica, per l’Olanda addirittura 11 enti), insiste Fihn “sono le società che traggono profitto dall’assassinio di massa indiscriminato di civili”. Speculando sull’apocalisse, insomma, si guadagna. Ai “cavalieri neri” del nucleare si oppone un sempre più nutrito esercito di investitori responsabili che ha scelto di mollare il pur redditizio settore. Fra questi l’Ican cita due fondi pensionistici scandinavi: quello danese Abp, il quinto al mondo, e quello governativo norvegese Gpfn, numero due al pianeta. Il primo ha ufficializzato che dal gennaio di quest’anno uscirà dal comparto, il secondo che escluderà un numero ancora maggiore di produttori di armi nucleari.