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 2018  marzo 08 Giovedì calendario

Emilio D’Alessandro è stato per 30 anni il factotum del Maestro Oggetti, lettere, pellicole, elementi dei set saranno in vendita il 27

Il cappotto di Tom Cruise in Eyes Wide Shut, base d’asta 3000 euro, ha le maniche accorciate: «L’ho fatto adattare, mi serviva per lavorare in campagna», dice Emilio D’Alessandro. Con il cappello del sergente Hartmann di Full Metal Jacket ci si è protetto molte volte dalla pioggia, su due dei tappeti dell’Overlook Hotel di Shining lui e la moglie Janine prendevano il tè: «Finito un film, il set andava smantellato in 24 ore. Non avete idea di quanti oggetti Stanley riuscisse ad accumulare. Ma poi non vedeva l’ora che sparissero, e allora chiedeva alla troupe: servono a qualcuno?».
Ora che D’Alessandro, il fedele factotum italiano di Stanley Kubrick, a 77 anni ha deciso di privarsi dei suoi cimeli, «perché forse a qualcuno servono più che a me», sono 55 i lotti kubrickiani che vanno all’asta per Bolaffi il 27 marzo a Torino (dal 13 al 21 in mostra a Milano al Museo interattivo del cinema). Ci sono annotazioni autografe, mobili, indumenti, affiche, feticci assoluti come i portachiavi dell’Overlook Hotel, realizzati in colori diversi «per verificare quale venisse meglio sotto le luci». Perfino qualche possibile Sacro Graal in pellicola, perché tutto il materiale che restava sul pavimento della sala di montaggio veniva fatto distruggere da Kubrick, ma Emilio qualche spezzone se lo tenne, «da usare per la manutenzione dei proiettori».
Per la Bolaffi, come racconta l’ad ed erede Filippo, è una straordinaria occasione commerciale. La loro prima asta di memorabilia cinematografici, «ancora più preziosi perché provengono da una stessa persona, che in più è viva e vegeta e può raccontare il valore e il significato di ciascun oggetto. Finiranno di sicuro quasi tutti in America e in Gran Bretagna, perché è lì che è più diffuso il collezionismo di questo tipo».
Quella che ne esce è soprattutto la storia straordinaria, fatta di rispetto, amicizia e affettuosa prevaricazione, fra Kubrick ed Emilio, raccontata solo in anni recenti da un libro, Stanley Kubrick e me, edito dal Saggiatore, e da un film, S is for Stanley, con cui Alex Infascelli ha vinto un David di Donatello.
Il regista più scontroso e geniale del Novecento lo assunse come autista dopo averlo conosciuto grazie a una consegna un po’ speciale: «Trasportavo oggetti di scena per le case cinematografiche, quella volta era una scultura a forma di fallo per Arancia meccanica, l’avevo coperta perché non mi sembrava bella. Ero uscito solo io, nevicava e le strade erano ghiacciate». Kubrick rimase colpito dalla professionalità. Tanto più quando scoprì che quell’italiano era stato corridore automobilista: «Mi fece il colloquio di lavoro con in mano un ritaglio di giornale che parlava di me».
A poco a poco, Emilio gli diventa indispensabile. Gli tiene l’agenda. Va a prendere all’aeroporto gli attori intimoriti dall’incontro con il Genio. Che ci trovava in lei? «Ero puntuale, affidabile, lavoravo come un mulo. Tutto il giorno: il mio record è stato 21 ore. E poi le telefonate, continue, anche se Stanley i telefoni, e i cercapersone, e le penne, continuava a perderli, nonostante le giacche con cento tasche» (una va pure all’asta, di foggia militare). È l’unico ad avere il permesso di penetrare in certe zone della casa, «con la gatta di Stanley e con il cane di sua moglie Christiane».
Gli fa da interprete quando chiama Fellini, «non s’intendevano con le lingue, ma comunicavano a numeri, misteriosamente. Io trasmettevo senza capire niente». A un certo punto D’Alessandro cerca di scappare in Italia, a Montecassino, dove ha un pezzo di terra, e Kubrick gli lascia un biglietto straziante, anche quello all’asta: «L’ultima volta che vieni a prendere la posta, sono triste». Dopo poco riesce a riacciuffarlo, approfittando di una visita a Londra: «Se torni – gli scrive – forse Eyes Wide Shut riesco a sfangarlo». Dovevano essere 16 settimane, furono due anni. L’ultimo film, prima della fine improvvisa, esattamente 19 anni fa. «Ancora non ci credo – dice Emilio -. Per mio padre rimasi indifferente. Per Stanley piango ancora».