Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2018
Sulle clausole una partita da 31 miliardi in due anni
Aumenti dell’Iva e delle accise sui carburanti per un totale di 31,5 miliardi nel biennio 2019-2020. È quel che prevede la coda delle cosiddette “clausole di salvaguardia”, introdotte negli anni scorsi a salvaguardia dei saldi di finanza pubblica e già inserite nei “tendenziali”. Il che vuol dire che se con la prossima legge di Bilancio il prossimo Governo non individuerà risorse compensative (intanto per i 12,4 miliardi di competenza del 2019) scatterà la tagliola degli aumenti automatici. Al momento questa è la tempistica: dal 1° gennaio 2019 l’aliquota intermedia Iva salirà dal 10 al 12%, mentre l’aliquota ordinaria passerà dal 22 al 24,2 per cento. Nuova raffica di aumenti dal 2020, con l’aliquota intermedia Iva che salirà al 13% e quella ordinaria al 24,9 per cento. In sostanza in soli due anni, le due aliquote Iva più applicate saliranno ciascuna di circa tre punti, con tutti gli effetti che se seguiranno. Dal 2020, scatterà anche l’aumento delle accise sui carburanti, per un incasso previsto attorno ai 300 milioni. Nel solo 2020 l’intera clausola di salvaguardia vale 19,1 miliardi. Come farvi fronte? Poiché questa è una decisione tipicamente di natura politico/programmatica, solo un governo nella pienezza dei suoi poteri e dunque dotato dell’indispensabile sostegno parlamentare potrà decidere se e come neutralizzare la raffica di aumenti delle imposte. Già nel Def di metà aprile dovrebbe esser chiarita la strada che s’intende intraprendere. Qualora – come pare probabile al momento – a scrivere il Def sarà il governo Gentiloni (che dopo l’insediamento delle Camere sarà in carica solo per gli affari correnti) la decisione non potrà che essere rinviata. A Bruxelles verrà recapitato il solo quadro a politiche invariate, che incorpora anche l’aumento automatico dell’Iva. Poi entro fine settembre, il governo che avrà l’onere di predisporre la Nota di aggiornamento al Def e la legge di Bilancio, stabilirà il da farsi. Le strade per evitare che scattino le clausole di salvaguardia si riducono a due: sostituirle con contestuali tagli alla spesa e/o aumenti del prelievo fiscale, per 12,4 miliardi nel 2019 a 19,1 miliardi nel 2020. Oppure provare a imboccare la strada della “flessibilità” europea. In poche parole, finanziando il mancato gettito in deficit, fermo restando il limite non valicabile del 3% fissato dalle regole europee. È quel che è stato deciso dai governi Renzi e Gentiloni. Tanto per citare l’ultimo dato in ordine di tempo, la manovra 2018, tuttora in attesa del giudizio definitivo da parte della Commissione Ue, per evitare l’aumento dell’Iva (cifrato in 15,7 miliardi, poiché 3,8 miliardi erano già stati neutralizzati con la cosiddetta manovrina del maggio 2017) ricorre per il 70% all’aumento del deficit. Nel totale, dal 2015 in poi l’Italia ha potuto fruire di uno “sconto” (compreso quello inserito nella manovra 2018) di circa 30 miliardi, sotto le forme delle clausole di flessibilità su riforme, investimenti, eventi eccezionali e costi per l’accoglienza dei migranti. Certamente si potrà provare a percorrere nuovamente questa strada, ma non sarà una passeggiata. Il prossimo governo dovrà aprire una trattativa serrata con la Commissione Ue, e ancor prima sondare il terreno degli equilibri politici in Europa, in primis a Parigi e a Berlino. Servono alleati in una partita così complessa. Se al contrario si optasse per la prova di forza ignorando le regole europee, si aprirebbe tutt’altro scenario spalancando le porte a un’eventuale e poco auspicabile procedura di infrazione.