Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2018
La rinascita dei capannoni passa dalle Regioni
Le Regioni come laboratorio delle nuove regole sulla rigenerazione. E le imprese, con il bisogno di ridare vita a migliaia di capannoni dismessi, come catalizzatore di questo processo.
Si tratta di un processo in fase di sperimentazione. La riconversione di strutture esistenti è, almeno in teoria, di grande moda. Nella pratica però si scontra, se parliamo del patrimonio edilizio residenziale, con i limiti legati alla parcellizzazione della proprietà, che rende difficile imbastire operazioni solitamente parecchio articolate. Gli edifici produttivi godono, invece, di condizioni naturali favorevoli: proprietà uniche con la liquidità e le competenze tecniche per avviare le operazioni di recupero. Non è un caso, allora, che il processo di spinta dal basso in arrivo dalle leggi regionali stia puntando con decisione sempre maggiore in questa direzione: mettere a disposizione delle imprese gli incentivi necessari ad attivare questi investimenti. A volte è una semplice «moneta urbanistica», costituita da premialità in termini di cubatura extra, altre volte si tratta di sconti sugli oneri da versare. Con il corollario di accordi che consentono deroghe agli strumenti urbanistici. La sostanza, comunque, è sempre la stessa: creare un ambiente favorevole per chi vuole investire in rigenerazione.
L’associazione nazionale dei costruttori (Ance) dedica al tema un monitoraggio continuo. «In questa fase – spiega il vicepresidente Ance, Filippo Delle Piane – la rigenerazione si sta muovendo principalmente a livello regionale, mentre il livello nazionale è, purtroppo, bloccato. E, in questo quadro, sono soprattutto le grandi aree industriali del Nord a prestarsi a un percorso rigenerativo». Anche se sarebbe preferibile un maggiore coordinamento: «Una norma quadro nazionale – dice ancora Delle Piane – è il nostro auspicio per la prossima legislatura, perché in questo modo rischiamo di muoverci in maniera disordinata. Il prossimo obiettivo deve essere quello di agire sul tessuto residenziale».
Tornando alle leggi, in ordine di tempo, gli ultimi arrivi sono le nuove normative di Emilia Romagna (Lr 24/2017) e Friuli Venezia Giulia (Lr 44/2017). Ma la lista dei governatori che sono intervenuti a regolare la materia è molto più lunga: vanno ricordate almeno Calabria, Lazio, Lombardia, Toscana, Provincia autonoma di Trento, Umbria e Veneto.
Spostandosi proprio in Veneto, è possibile fotografare il fenomeno che, più di ogni altro, sta caratterizzando questa fase: la riconversione degli edifici produttivi come laboratorio della rigenerazione. Da queste parti sono oltre 90mila i capannoni e molti di questi sono ormai dismessi. Nasce in questo contesto l’articolo 8 della legge 14/2017 del Veneto, illustrato dall’avvocato Bruno Barel, che ha contribuito alla sua stesura: «La norma consente e promuove il riuso temporaneo del patrimonio immobiliare dismesso o inutilizzato sulla base di una convenzione tra privati e Comune, approvata dal consiglio comunale, che dia le garanzie minime di tutela della salute e sicurezza delle persone e di rispetto dell’ordine pubblico. Si cerca in questo modo di affrontare concretamente il problema rappresentato dalla grande quantità di edifici inutilizzati e generalmente degradati presenti nel territorio».
Il problema, però, non riguarda solo il Veneto. Così, passando al setaccio le leggi regionali in vigore, sono molti altri i casi che guardano alla rigenerazione dei capannoni. In Emilia Romagna (legge 24/2017) i capannoni sono più di 88mila. Per incentivare gli investimenti i Comuni possono tirare la leva degli sconti sul contributo di costruzione: da una riduzione del 20% fino alla totale esenzione, in caso di bonifica di suoli inquinati e di rimozione dell’amianto. Ancora, i cambi di destinazione d’uso sono gratuiti nel caso in cui non comportino un carico urbanistico maggiore. Ma nei piani urbanistici possono entrare anche «premialità aggiuntive», agganciate ad accordi.
Nel Lazio i capannoni censiti sono meno di 40mila: per riconvertire almeno una parte di queste strutture, la legge 7/2017 punta sulla demolizione con ricostruzione. I Comuni possono riconoscere a queste operazioni incrementi di volumetria fino al 30 per cento. Inoltre, possono autorizzare i cambi di destinazione d’uso: in un capannone sarà, ad esempio, possibile ospitare uffici o attività commerciali. Addirittura, è possibile realizzare altrove la cubatura incassata come premio.
In Umbria (14mila capannoni) con la legge 1/2015 per la riqualificazione degli edifici destinati ad attività produttive, anche attraverso il cambio di destinazione d’uso, è consentito utilizzare «aree adiacenti al lotto di pertinenza fino ad un massimo del 15% della superficie dello stesso lotto». Ma ci sono anche gli esempi della Toscana e della Provincia di Trento.
Le norme regionali si rivolgono ai proprietari più virtuosi e che hanno ancora voglia di mettere a frutto i loro beni: purtroppo è ancora frequente la scelta di rendere inagibili i capannoni o addirittura, di nascosto, quella di agevolarne il crollo. La ragione è semplice, si riassume in tre caratteri: Imu. Per un capannone medio piccolo, sui 500-700 metri quadrati, l’Imu annuale va da 5mila a 10mila metri quadrati e la spesa, aggiunta agli strascichi di un’attività forzatamente interrotta dalla crisi, può risultare pesantissima. Oltre che ingiusta.
I fabbricati crollanti (ma non del tutto crollati), definiti “collabenti” e iscritti in catasto nella categoria F2, senza attribuzione di rendita, non sono infatti soggetti al pagamento dell’Imu né come fabbricati né come area fabbricabile. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza 23801/2017. Gli “inagibili”, invece, sono capannoni che hanno perso una parte delle loro potenzialità funzionali per varie ragioni (caduta del tetto, vandalismi, impianti distrutti): in questi casi la base imponibile (e quidi anche l’imposta) è ridotta del 50 per cento. Attenzione, però: la Cassazione ha chiarito che sinché il capannone è “collabente” iscritto nella F2 non potrà in nessun modo essere soggetto a imposizione, né come fabbricato né come area edificabile. Ma l’agevolazione scompare quando si provvede alla totale demolizione del rudere, perché da quel momento l’area “nuda”, se potenzialmente edificabile, deve essere considerata come suolo fabbricabile e quindi sconta l’Imu.