la Repubblica, 8 marzo 2018
Intervista a Domenico Zonin. «Popolare Vicenza ci ha dato solo guai da anni lavoriamo senza nostro padre»
MILANO Domenico Zonin, 45 anni, dal 2016 è presidente della casa vinicola di famiglia, la Zonin 1821. Tiene in mano le redini, di fatto, da quindici anni. Da quando suo padre Gianni ha deciso di occuparsi a tempo pieno della Banca Popolare di Vicenza. Ne è stato presidente per 19 anni fino al 2015, alla vigilia del crac che ha bruciato 6 miliardi di valore delle azioni in mano a 118mila soci. Per Gianni Zonin i pm di Vicenza chiedono il processo, con le accuse di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza. Il giudice dell’udienza preliminare ha disposto un sequestro conservativo per decine di milioni di euro. Fra i beni congelati, anche quote societarie che Zonin aveva trasferito ai figli nei mesi del disastro della banca. Una mossa che il giudice ha ritenuto un tentativo di nascondere denaro ai soci della Popolare danneggiati.
«Quella banca ci ha portato solo guai, fin dall’inizio – dice Domenico – ricordo il pranzo in cui mio padre ci disse che sarebbe voluto diventare presidente della Popolare di Vicenza. Eravamo a casa, in campagna, a Montebello Vicentino. Lo ascoltai fino in fondo, poi gli dissi che era una pessima idea, che non ero d’accordo e che non doveva farlo.
Avevo 23 anni, era il 1996».
Suo padre cosa le rispose?
«Niente. Conoscendolo, non mi aspettavo nulla di diverso».
Per migliaia di risparmiatori, che hanno perso molto, è il maggior responsabile del crollo delle azioni della Popolare di Vicenza. Chi è per lei Gianni Zonin?
«Oggi è un pensionato. In passato è stato tante cose. Un buon padre anzitutto. Ha cresciuto me e i miei due fratelli in paese, senza televisore, iscritti a scuole pubbliche. È stato un grande imprenditore. A 27 anni è diventato presidente di un’azienda da poco, che produceva frizzantino da supermercato in bottiglie da un litro e mezzo. Quando nel 2003 siamo entrati io e i miei fratelli, fatturava 60 milioni. Ma è sempre stato un accentratore. Non ascoltava nessuno. E voleva che questo fosse evidente a tutti, anche all’esterno. La faccia doveva sempre essere la sua, anche quando non aveva meriti reali».
Lei e i suoi fratelli ne avete sofferto?
«Penso si sia fatto da parte in azienda anche per evitare di essere troppo ingombrante per noi. E la Zonin 1821 ne ha giovato. Il periodo in cui eravamo insieme in società non è stato facile. Noi aprivamo una sede commerciale in Cina, lui arrivava per la foto. Una visibilità che, con il senno di poi, gli si è ritorta contro».
In banca aveva fama di divoratore di manager, che cambiava con facilità. È un ritratto fedele?
«Non ha mai saputo scegliere le persone. Avevo 19 anni quando mi presentò il nuovo direttore marketing dell’azienda vinicola. Mi misi le mani nei capelli. Poi pensai che avrebbe comunque deciso tutto lui. Gianni Zonin funziona quando fa da solo. Quando deve delegare, non funziona più. In banca non poteva fare tutto lui, non era il suo campo, non era una sua proprietà. Io e i miei fratelli, Francesco e Michele, siamo diversi».
Migliori?
«Molte aziende al passaggio generazionale falliscono. La Zonin 1821, con noi tre alla guida, fattura 200 milioni. Mio padre ha vissuto la fase della crescita in Italia. Noi, che da ragazzi abbiamo lavorato all’estero, abbiamo raggiunto una dimensione internazionale.
Esportavamo il 15 percento, oggi siamo all’87. Francesco ogni anno fa 385mila miglia in aereo. Vendiamo negli Stati Uniti, in Cina, in Sudamerica. Abbiamo nostre bottiglie fra le prime 100 scelte da Wine Spectator».
Quanto vi ha aiutato la Popolare di Vicenza, di cui vostro padre è stato capo indiscusso per un ventennio?
«Siamo cresciuti nonostante la Popolare. Storicamente, è al quinto posto per importi fra le banche che ci hanno concesso affidamenti. Non è mai stata strategica. E infine ci ha danneggiati. Il crac dell’istituto ha bruciato 22 milioni di euro di azioni che avevamo acquistato. E L’inchiesta penale su mio padre ha sporcato il nostro cognome».
Ha mai pensato di cambiare nome all’azienda?
«Ce lo hanno consigliato diverse società di comunicazione, ma non esiste. Anche se riceviamo lettere di insulti. Anche se i giornalisti esperti di vino cancellano le visite nelle nostre cantine. Quando avevo sette anni, avevo il sogno di guidare la società che porta il nostro cognome. E ne sono orgoglioso. Da un punto di vista di immagine paghiamo il conto di un signore, mio padre, che è stato azionista di minoranza e che ha avuto casini personali. Essere suoi figli negli ultimi anni ci ha danneggiato».
Dopo i sequestri conservativi milionari disposti dal giudice, potrebbe entrare nelle holding di famiglia un custode giudiziario.
«Finora non è successo, e potrebbe non succedere. Il 10 percento delle quote societarie sono congelate.
Quello era il peso che Gianni Zonin aveva in proprietà. Da un punto di vista operativo, non cambia nulla.
Diamo lavoro a mille persone, pensare che la Zonin 1821 possa pagare i guai di mio padre è inaccettabile. Noi andiamo avanti».
Per il giudice, Gianni Zonin ha intestato tutto a voi parenti fra il 2015 e il 2016 per evitare di restituire soldi ai soci della banca danneggiati dal crac.
«Era previsto già nel 1996 che il passaggio delle quote si sarebbe completato nel 2016. È avvenuto gradualmente. Avesse voluto imbrogliare, non avrebbe certo trasferito gli asset con atti notarili diretti e trasparenti. Quanto alle intestazioni degli immobili, sono state scelte sue. Non gli abbiamo chiesto nulla. Era e resta un suo problema».
Cosa vuol dire oggi a Vicenza chiamarsi Zonin?
«Io vivo ancora a Montebello, e in paese sto bene. Lì ci conoscono davvero. Girare a Vicenza invece non è facile. Non sono scemo, vedo come mi guarda la gente. I soci della banca che hanno perso soldi sono ovunque, anche fra i nostri dipendenti. E per mio padre camminare in centro sarebbe impossibile. È stato condannato dalla città il giorno dell’apertura dell’inchiesta. Io sono suo figlio e lo sarò per sempre».
Cosa fa oggi suo padre?
«Ha ottant’anni, non lavora più, sta con mia madre e soffre. Per chi ha dedicato una vita al lavoro, uscire di scena così è già una condanna. I processi ci diranno se valeva la pena di tanta sofferenza, o se sta pagando colpe non sue».