la Repubblica, 7 marzo 2018
Peter Brook: «Tutto tranne il superfluo nel mio teatro»
PARIGI C’è una parola che bisogna tenere a mente, preparandosi a un incontro con Peter Brook. Una preposizione. Oltre, beyond, al di là. Il maestro la userà spesso. I suoi spettacoli vanno oltre quel che si vede.
Perché, sempre più sprovvisti di scene e costumi, in fondo vi si vede ben poco. O almeno così sembra. Da più di settanta anni il regista inglese ci fa viaggiare in quello che lui chiama un “mondo invisibile”. Ci ha guidato lungo il suo meraviglioso Shakespeare – l’ultimo, un Amleto senza costumi e in scena pochi cuscini colorati – fino al Mahabharata – epico e poco più arredato, soprattutto di luci – passando per la Carmen, per Beckett, per luminosi racconti africani, fino alla psicoanalisi di Oliver Sacks.
E adesso che a quasi 93 anni mette finalmente in scena se stesso, lo spazio è sempre più vuoto. The prisoner, che ha debuttato ieri alle Bouffes du Nord – teatro nel quale Brook è stato padrone di casa dal ’74 al 2008 – e che vedremo in autunno al Romaeuropa Festival, è il racconto di una prigione invisibile. Quella di Mavuso, che ha commesso un crimine terribile e se ne sta seduto su una collina davanti a una moderna prigione in cemento. Un uomo vestito all’occidentale arriva fino a lui, e la narrazione inizia.
Conosceremo Ezechiele, guida spirituale del ragazzo. Poi Nadia, sua sorella. Trovando il loro padre a letto con Nadia, Mavuso lo ha ucciso. Ha punito l’incesto.
Ecco il suo crimine. Ezechiele lo ha tirato fuori dal carcere e lo ha costretto a sedervi davanti.
Per espiare la sua colpa, lui stesso diverrà carcere. Lascerà che il carcere gli entri dentro. Brook ci riceve nella sua casa luminosa, non distante dall’Opéra.
Cammina con qualche difficoltà, ma il blu dei suoi occhi è sempre bellissimo, e la mente più che lucida. Alle volte non è facile seguirlo nei ragionamenti. Anche le sue risposte vanno “oltre”.
Secondo gli insegnamenti di Gurdjieff, che segue da una vita, dice meno di quello che potrebbe.
Chi è il ragazzo seduto davanti alla prigione? Perché sta lì e non dentro? E come, con Marie-Héléne Estienne, siete arrivati al racconto di “The prisoner”?
«L’ho incontrato davvero quel ragazzo, durante un viaggio in Afghanistan negli anni 40.
Mi aveva mandato da lui il suo maestro sufi. Non ho mai saputo quale crimine avesse commesso, né se alla fine fosse riuscito a espiare la sua colpa. Ma il racconto ha viaggiato nella mia memoria, ha preso il suo tempo. C’è solo uno scopo quando si agisce in quel campo misterioso che chiamano teatro, ed è arrivare a toccare le persone. Lo scopo è raggiunto quando qualcuno è toccato.
Nessun vocabolario renderà giustizia alla parola “touched”.Bisogna andare oltre la parola.
Anche a quelle di uso quotidiano.
C’è l’esperienza umana e c’è quella spirituale che ti porta in un luogo senza parole».
Ma Ezechiele parla, e si chiama come il più grande dei profeti. In “I fili del tempo” (ed. Feltrinelli), la sua autobiografia, si chiamava Tour Malang, il Derviscio Nero.
Perché gli ha cambiato nome?
«Lo ha scelto Marie-Héléne.
È un uomo che ha cercato di capire più profondamente di altri.
Lui parla di delitto, di castigo, di colpa e redenzione. Di perdono.
Sono gli argomenti dello spettacolo. Ognuno sceglierà il suo. Ezechiele dice: non viviamo in paradiso né all’inferno. Non è un moralista.
Non giudica. È uno che ha cercato di capire al di là dell’accaduto, al di là del visibile. Mette il ragazzo davanti alla prigione per fargli vivere la sua propria prigione, come facciamo tutti».
Nelle pagine di “I fili del tempo” lei riporta il racconto come lo vediamo in teatro.
Quella volta, sulla strada di Kandahar, non accettò il cibo che il ragazzo davanti al carcere le porgeva; proprio come il signore occidentale di “The prisoner” non lo accetta da un calzolaio incontrato sul cammino, prima di fermarsi a salutare un nano che si piace, che è contento di essere come è.
Sono dettagli?
«Sono il simbolo, la quintessenza dell’ospitalità orientale. È quel mercante di tappeti che mi ha offerto un tè senza pensare se avrei o no comprato la sua merce.
Per il puro piacere di aprire la porta allo straniero senza esigere niente in cambio».
È lei il viaggiatore occidentale della pièce?
«Potrei essere io. Perché lui dice esattamente quello che ho scritto in I fili del tempo. Ma non mi interessa approfondire l’argomento».
Riuscirà il ragazzo a espiare la sua colpa?
«Il finale è aperto. Niente è risolto, per il pubblico. Ognuno troverà la sua risposta».
Davanti ai suoi spettacoli viene da pensare che ai tempi di Shakespeare il teatro fosse proprio così. Niente scene, pochi costumi, il pubblico attorno agli attori. È tornato al punto di partenza...
«Direi di no. Perché ho iniziato alla maniera italiana: il pubblico lontano dalla scena, diviso da un sipario. Così l’opera aveva cambiato il teatro. I tedeschi lo chiamano “two rooms theatre”, teatro a due stanze. All’inizio non mi ero posto il problema. Era così, e basta.
Ma con il tempo ho cercato una purezza, l’essenza del teatro.
Quello dei greci e di Shakespeare, quando nessun elemento distraeva l’immaginazione del pubblico.
Sulla scena di The prisoner ci sono dei rami, c’è qualche sasso.
Mesi fa ce ne era una grande quantità. Una delle mie parole oggi è: eliminazione. Meglio senza.
Molto meglio senza».