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 2018  marzo 07 Mercoledì calendario

La rivincita del dialetto fra i banchi di scuola

«Sito mato?» domanda il professore in classe. Tanto per spiegare che la costruzione della frase in veneto è la stessa dell’inglese: «Are you crazy?». Si divertono i ragazzini della media Fogazzaro di Trissino, nel verde delle colline vicentine.
Nelle scuole di Genova i nonni volontari invece partono dal lessico, i bambini imparano a dire bàrba, làlla e madonâva: zio, zia e nonna. Alla primaria Montale del quartiere Sanpierdarena si sono spinti anche oltre: tradurre Dante in genovese. Mentre la prima lezione di romanesco all’istituto Milanesi lungo la via Appia Pignatelli si fa sul verbo avere: avecce. E vai col presente indicativo: io ciò, tu ciai, lui cià...
A rischio d’estinzione, i dialetti rispuntano e rivivono tra i banchi.
Un fenomeno in crescita, sebbene con esperienze pilota e a macchia di leopardo nell’Italia dalle infinite parlate. Una trentina, segnala l’Unesco nel suo Atlante delle lingue a rischio, sono in pericolo o “vulnerabili” come il siciliano, il romagnolo e il griko, l’idioma greco che si usa nel Salento e in Calabria.
Alcune regioni, dall’Emilia alla Sicilia, ma anche Liguria e Veneto, hanno leggi sulla tutela e la valorizzazione dei dialetti. Cavallo di battaglia della Lega, gli insegnanti prendono però le distanze: è solo una questione culturale. «Una lettura politica sarebbe sbagliata, questa è semplicemente un’esperienza linguistica», mette le mani avanti Mariangela Ceretta, la preside delle Fogazzaro dove 111 alunni stanno sperimentando da lunedì scorso le lezioni (sette ore) di dialetto veneto tra una materia e un’altra. Il viaggio è iniziato con Antenore, mitologico fondatore di Padova. Ma il programma prevede applicazioni pratiche, tra cui la comparazione con le lingue straniere. «Il veneto funziona come l’inglese, il francese, il tedesco» spiega Alessandro Mocellin, l’insegnante di dialetto.
Un esempio? La formula francese je suis en train d’aller ricalca il veneto mi son drio andar. «Lessico italico, una fonetica di tipo iberico e la sintassi vicina al francese», sintetizza fiero Mocellin.
Non tutte le esperienze decollano. «A Roma nonostante la legge regionale istituzioni e scuole non si muovono», dice Maurizio Marcelli, presidente dell’Accademia romanesca che tiene lezioni alle medie Milanesi, unico caso. «Parlare romanesco è considerata una cattiva abitudine, ma le radici locali non vanno tagliate: è la lingua dell’immediatezza, dietro c’è lo spirito romano da Giovenale a oggi, una filosofia di vita».
Il dibattito tra linguisti è aperto.
«La questione se e come insegnare i dialetti non è banale», osserva Franco Bampi, docente all’università di Genova, anima dell’associazione “A Compagna” impegnata nel progetto, sostenuto con fondi regionali, che coinvolge 140 classi e oltre cento nonni-maestri. Mauro Ferrando è uno di questi: «Insegniamo parole, filastrocche, ma anche a fare il pesto. Un incontro tra generazioni». E non solo. Stefano Rovinetti Brazzi, docente di greco e latino che al classico Galvani di Bologna ha aperto un corso pomeridiano di bolognese, ricorda la grande letteratura in dialetto del ‘900. «Un sentiero su cui vale la pena di camminare – dice – Con i miei studenti parto dalla grammatica e arrivo ai testi letterari, per non lasciare morire una lingua che è stata vitale per secoli». Dal corso al liceo sono partite ora altre iniziative, tra cui il bolognese insegnato dagli anziani che ancora lo parlano nelle scuole di Castel Maggiore, in provincia.
Rovinetti ribalta la retorica populista: «È un’esperienza inclusiva, apprezzata anche dalle famiglie immigrate. La lingua locale ti radica nella realtà in cui vivi. Ma non ti chiude lì dentro».