Corriere della Sera, 7 marzo 2018
Il dna dei colori
Cambridge Questo è il racconto di una bambina ribelle le cui storie della buonanotte erano i libri di Stephen Hawking. E che per seguire la sua passione è andata a Cambridge a decifrare la struttura nascosta dei colori.
Il laboratorio del dipartimento di chimica dell’ateneo inglese è come uno se lo immagina: vetrate dietro cui si allineano provette, storte e alambicchi. In un angolo, un gruppetto di ragazzi e ragazze (tutti italiani) è impegnato a pulire lenti di microscopi dietro una pila di scatolette variopinte. Li guida Silvia Vignolini, 37 anni, da Firenze: la ricercatrice che ha svelato il codice genetico dei colori strutturali.
«Qui analizziamo come gli organismi creano i cosiddetti colori strutturali», spiega Silvia: si tratta di quei colori che non sono frutto di un pigmento ma della particolare disposizione di microscopiche strutture che riflettono la luce. La ricercatrice apre il computer e mostra delle meravigliose farfalle, il cui blu acceso è dato dal modo in cui sono fatte le ali. E lo stesso vale per le piume dei pavoni. «Noi cerchiamo di capire come la natura “ingegnerizza” il materiale e proviamo a riprodurlo. È un procedimento che chiamiamo bio-mimetica. Studiamo come manipolare queste strutture».
Un ulteriore approccio è dato dall’analisi delle colonie di batteri che producono colori. «Abbiamo provato a cambiare i geni di questi batteri e quindi a cambiarne il colore. In questo modo possiamo utilizzarli come colori viventi». Le applicazioni sono infinite e tutte affascinanti: si possono ottenere vernici «viventi» per auto e pareti, biodegradabili e atossiche, che potrebbero agire come sensori cambiando colore in risposta a stimoli esterni. E il team della Vignolini ha attirato anche l’attenzione delle aziende cosmetiche: i grandi gruppi si sono fatti avanti e alla fine i ricercatori di Cambridge hanno deciso di collaborare con uno dei colossi del settore.
Un team di ricerca internazionale a Cambridge, a guida italiana, porta inevitabilmente il discorso sull’esodo dei nostri talenti. «Dopo aver finito il dottorato a Firenze ho capito che dovevo andar via – racconta Silvia —. Nel nostro settore la mobilità è importante. All’inizio pensavo che sarei rientrata dopo un paio d’anni, ma poi sono rimasta. Per portare avanti progetti di questo tipo occorre del tempo». E la studiosa ammette con amarezza che «in Italia sarebbe difficile realizzare una ricerca come la nostra. La situazione non è stabile, è arduo trovare delle posizioni a lungo termine». E soprattutto, sottolinea, occorre quella massa critica di studiosi e quella disponibilità di risorse per progetti interdisciplinari che solo un posto come Cambridge può garantire.
E non si può non notare come quello della Vignolini sia un successo femminile che viene da un Paese che spesso ha difficoltà a incoraggiare le donne a studiare materie scientifiche. «Il fatto che le ragazze non scelgano certe materie è solo il corollario di una percezione sbagliata delle donne – sostiene Silvia —. Nei nostri confronti ci sono attese stereotipate da parte della società. Puoi anche essere brava a scuola, ma non ti danno mai pienamente credito. Perfino mio padre dice che, rispetto a mia sorella, io sembro un po’ un uomo! Qui in Inghilterra è diverso, fanno vedere le donne in posizioni forti, le incoraggiano a farsi avanti». La soddisfazione è però ricevere una lettera dall’Italia di una ragazza che vuole studiare chimica e che le scrive: «Se ce l’hai fatta tu, ce la posso fare anch’io!».