Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  marzo 07 Mercoledì calendario

Fantasia e potere a fisarmonica così il Quirinale torna cruciale

Da qualche giorno lettori e telespettatori stanno acquisendo familiarità con un termine – fisarmonica -, che non riguarda lo strumento musicale, ma i poteri del Presidente della Repubblica. Non riuscendo a descriverli diversamente, e dopo essersi scervellati a lungo sul Capo dello Stato, la figura meno definita dalla nostra Costituzione, i costituzionalisti, con questa parola, hanno spiegato che il ruolo del Presidente si allarga e si restringe, proprio come il mantice dello strumento, a seconda dei momenti. Il Presidente «non è l’evanescente personaggio, il maestro di cerimonie, il motivo di pura decorazione che si volle vedere in altre costituzioni», chiarì uno dei padri costituenti, Meuccio Ruini.
È stato sempre così, dalle origini della Repubblica, quando la frequenza continua delle crisi di governo impose subito una liturgia, che s’era molto semplificata negli anni della Seconda Repubblica, quando i governi, grazie ai sistemi elettorali maggioritari, li sceglievano i cittadini, e il Capo dello Stato svolgeva – ma poi non sempre, non tanto -, un compito più notarile.
La storia dei 64 governi dal 1946 a oggi è ovviamente piena di intoppi, infortuni, imprevisti, ripensamenti. E i Presidenti della Repubblica sempre sono stati chiamati a risponderne, non foss’altro perché sono loro (articolo 92 della Costituzione) a nominare il premier e i ministri. Lo fanno in base alla percezione del quadro politico maturata nelle consultazioni. Ma anche, questo è il bello, usando la “fantasia” e seguendo la propria “personalità”, concetti entrati a ragione nei manuali di diritto costituzionale. Ad esempio, quando Giovanni Gronchi, il 26 marzo 1960, incaricò Fernando Tambroni di formare un monocolore democristiano per sbrigare «adempimenti urgenti», non poteva immaginare che in Parlamento si sarebbe ritrovato con l’appoggio del Msi, il partito post-fascista allora ai margini della vita politica. Tambroni dopo la seduta alla Camera in cui i missini, solitari, lo votarono, pensò bene di dimettersi. Ma Gronchi, che pure veniva dalla sinistra democristiana ed era stato eletto al Quirinale con i voti dei comunisti, s’impuntò, respinse le dimissioni e lo mandò al Senato, dove i missini lo rivotarono, in un clima di tensione. A fine giugno, dopo la decisione del Msi di convocare il proprio congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, in tutt’Italia avvennero scontri tra polizia e manifestanti, con una decina di morti e varie centinaia di feriti.
Quattro anni dopo, alla fine di giugno ‘64, Antonio Segni era alle prese con la crisi del primo governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro. La discussione ruotava attorno al ruolo dei socialisti, al prezzo troppo alto che volevano imporre per mantenere in piedi l’alleanza. Il 15 luglio Segni a sorpresa inserì nelle consultazioni il comandante dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo e lasciò filtrare la voce che in mancanza di accordo politico tra i partiti, avrebbe varato un governo tecnico-militare, a cui si opposero subito Moro, il leader socialista Pietro Nenni e quello socialdemocratico Giuseppe Saragat. Nel corso di un chiarimento, chiamiamolo così, assai franco, con Moro e Saragat, il 7 agosto Segni fu colto da un ictus. Così finì la sua presidenza, avvelenata, anni dopo, da accuse mai provate fino in fondo di aver coperto il progetto di un colpo di Stato (il “piano Solo”) affidato allo stesso De Lorenzo.
Fu anche per questa ragione che a Saragat, successore di Segni, fu inibito l’esercizio della “fantasia” presidenziale. A ogni crisi di governo, si limitava ad affidare l’incarico raccomandando di formare un esecutivo «nell’ambito del centrosinistra» e dettagliando pure «la formula quadripartito» (Dc-Psi-Psdi-Pri). Ma non potendo sbizzarrirsi con i governi, Saragat, vecchio capo partigiano che aveva sempre avuto ammirazione per le belle donne, quando Sofia Loren partorì suo figlio, le inviò un telegramma di congratulazioni.
A metà del suo settennato, nel 1976, dopo elezioni finite con un risultato vagamente simile a quello di questi giorni (due vincitori, Dc e Pci, ma nessuna maggioranza possibile) Giovanni Leone dovette gestire la complicatissima crisi che portò per la prima volta i comunisti nell’area di governo, con l’espediente della «non sfiducia», cioè dell’astensione, data ad Andreotti. Le trattative durarono quattro mesi e si conclusero con la storica stretta di mano tra Moro e Berlinguer. Ma al Quirinale salirono solo ministri democristiani.
Subito dopo Sandro Pertini, primo presidente socialista, nel 1978 fece capire che la Dc, dopo trent’anni, avrebbe dovuto rinunciare alla presidenza del consiglio. Ci provò una prima volta nel ‘79 con Craxi, che si presentò sul Colle in jeans e fu rispedito indietro per riapparire in veste più istituzionale. Ma la Dc fece le barricate. Pertini si intestardì, e alla fine nell’ ‘81, dopo lo scandalo P2, incaricò Spadolini, a cui, dopo le elezioni dell’ ‘83, seguì Craxi, che restò a Palazzo Chigi quattro anni.
Cossiga è passato alla storia come “picconatore” per le rivelazioni su Gladio, la rete segreta anticomunista, che fecero sussultare l’ultimo governo Andreotti, i “pesci in faccia” con gli amici del suo partito, le clamorose dimissioni con cui lasciò il Quirinale. Ma qualche avviso del terremoto che si prospettava lo aveva dato anche prima, con una strana lettera mandata a Craxi per sapere chi avrebbe dovuto comandare le Forze Armate in caso di conflitto armato. Si avvicinava la guerra del Golfo, il leader socialista non pensava che fosse così urgente decidere: d’intesa con il Capo dello Stato, fu nominata una commissione, che impiegò qualche anno per dirimere la controversia.
Oscar Luigi Scalfaro, nel ‘94, ricevette Berlusconi. Il primo incontro fu piuttosto freddo: il Cavaliere reclamava l’incarico «conformemente al risultato elettorale», in nome della novità inaugurata dei governi scelti dagli elettori. Il Presidente ci rimase male, rivendicava il potere assegnatogli dalla Costituzione. Così, prima di nominare il governo, pretese che Berlusconi e Fini firmassero un documento di piena adesione ai valori della Resistenza.
Le crisi che Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano hanno dovuto affrontare, riguardavano quella più complessiva delle istituzioni, man mano che fallivano i tentativi di riformarle. Così gli ultimi due Presidenti, e particolarmente “re Giorgio”, l’unico eletto due volte, hanno dovuto intervenire continuamente sulla qualità delle leggi, dalla riforma del sistema tv Gasparri alla legge sulle ronde metropolitane. Napolitano, dopo la caduta di Berlusconi, fece sentire con forza il suo potere presidenziale con l’invenzione di Mario Monti e del suo governo tecnico, per affrontare la crisi economica e i rapporti con le autorità europee.
Adesso tocca a Mattarella. Chi lo conosce sa che è preparato al suo compito già dai tempi in cui insegnava diritto costituzionale all’università, e ha una grande esperienza, compiuta in molti passaggi difficili della storia repubblicana. Essendo noto per calma e pacatezza, tutti si chiedono come potrà combinare questa sua personalità con la fantasia necessaria per uscire da una delle crisi più complicate degli ultimi tempi. Lo saprà fare. E lo farà a modo suo, a voce bassa ma con fermezza, se necessario. A chi gli ha chiesto qualche giorno fa, se il suo lavoro sarebbe diventato più difficile dal 5 marzo in poi, ha risposto soltanto: «Perché, finora?».