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 2018  marzo 07 Mercoledì calendario

La famiglia che inventò il cinema saudita. E ora lo riapre

A casa Jamjoom si entra da un portoncino affacciato su una strada di case basse, non lontano dalla città vecchia di Gedda. Difficile immaginarlo, ma qui quarant’anni fa folle di spettatori – rigorosamente uomini – venivano a guardare in un cortile film di Hollywood, melodrammi egiziani e indiani, spaghetti-western italiani e classici di Vittorio De Sica o Sofia Loren. «Dopo ogni matrimonio venivano a vedersi un film, era diventata un’usanza», dice Shihab Jamjoom, in thobe e ghotra tradizionali, accogliendoci nella casa che negli anni Settanta suo cugino Fuad trasformò nel primo cinema dell’Arabia Saudita. Oggi restano a testimoniarlo solo vecchie telecamere e una montagna di «pizze» cinematografiche con titoli arabi. 
Molti sanno che l’Arabia Saudita è stato un Paese senza cinema, considerati una minaccia per l’identità culturale e religiosa secondo la rigida interpretazione wahhabita dell’Islam. Solo da questo mese sono stati autorizzati nel Regno, grazie alle riforme del principe ereditario Mohammed bin Salman. Dal 1° marzo, gli esercenti hanno cominciato a ottenere licenze di proiezione per sale con zone separate per uomini da una parte e donne e famiglie dall’altra. Pochi sanno, però, che qui il cinema non è sempre stato haram, proibito. 
Alla fine degli anni Sessanta Fouad Jamjoom, rampollo di una nota famiglia di commercianti di Gedda, tornò a casa dopo anni passati in Egitto. Era l’epoca d’oro del cinema di Youssef Chahine e Salah Abu Seif, e il ventenne Fuad s’era innamorato del grande schermo al punto da imbarcarsi nella gestione di una piccola sala nella provincia egiziana di Tanta. 
In Arabia Saudita solo qualche ambasciata e qualche famiglia abbiente aveva accesso a un proiettore, oltre alla compagnia petrolifera Aramco che mostrava i film del momento ai suoi dipendenti. Fuad allestì un cinema all’aperto, e fu subito un successo. «La gente veniva anche dalla Mecca e da Medina. Mio cugino ottenne l’esclusiva sui contratti con Warner Brothers e Twentieth Century Fox, e stringeva accordi dall’Egitto all’Italia», racconta Shihab, che oggi è il patriarca della famiglia. Fuad curava anche la censura, tagliando le scene sconvenienti: «Ma al massimo a quell’epoca si trattava di qualche bacio». Poi costruì una vera e propria sala, sul retro di casa. «Si ispirò all’architettura dello storico cinema Metro del Cairo, con spazi separati per gli uomini al piano terra e per le famiglie al piano di sopra». 
Non tutti erano d’accordo, le stesse autorità erano divise: «Il re Fahd, allora principe e ministro dell’Interno, era a favore; il principe della Mecca contrario», spiega Shihab. «A un certo punto Fuad ebbe una crisi religiosa e consultò uno sheikh. “Quel che faccio è haram?”. Lo sheikh tirò fuori un coltello e lo usò per tagliare una banana: “Credi che questa sia haram?”. Ogni strumento, dal coltello al cinema, può essere usato per far del male o del bene». Ma nel 1979 la Rivoluzione Islamica in Iran e l’attacco dei fanatici alla Mecca diedero forza agli estremisti. Fuad fu arrestato più volte, la sua sala data alle fiamme. I regimi iraniano e saudita fecero scelte diverse: il primo cercò di piegare i film alla propaganda; il secondo proibì del tutto di proiettarli.
Shihab, che ha studiato cinema all’University of Southern California con George Lucas come compagno («Un ribelle, un birichino» ricorda), ha trovato modo di sfruttare le sue competenze diventando viceministro dell’Informazione, producendo cartoni tv per bambini, e ideando il sistema video che permise alle studentesse nelle università segregate di assistere alle lezioni da una stanza separata, comunicando via microfono. 
Ora anche lui ha fatto richiesta di una licenza: «Apriremo in centri commerciali, a Gedda e a Taif, poi vogliamo costruire un cinema». Dopo le tante sofferenze di Fuad per difendere il suo sogno, gli eredi rischiano però d’essere schiacciati dalla competizione di rivali internazionali come l’americana «AMC Entertainment Holdings» e «VOX Cinemas» di Dubai in un mercato che potrebbe fruttare un miliardo di dollari l’anno. 
Shihab è ottimista: c’è un’intera industria da costruire, dalla formazione degli attori alla produzione «made in Saudi». I talenti non mancano, specie a Gedda: il comico Hisham Fageeh, protagonista l’anno scorso della prima commedia romantica saudita, Barakah incontra Barakah, che ha iniziato studiando e facendo stand-up in America, spiega che la grande palestra di molti giovani attori e registi è stata YouTube (popolarissimo nel Regno). Hakeem Jomah, medico di professione e autore del primo horror locale, Madayen, fa parte di un piccolo gruppo di cineasti underground ansiosi di mostrare per la prima volta i loro film non più solo ai festival stranieri ma anche in patria. Entrambi sono convinti che il pubblico saudita è pronto per storie capaci di sfidare i tabù sociali. 
Peccato che Fuad Jamjoom, morto cinque anni fa, non potrà vedere questa rivoluzione.