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 2018  marzo 07 Mercoledì calendario

Dimissioni congelate, il Pd in subbuglio

La questione delle dimissioni congelate di Matteo Renzi, stringi stringi, è questa: sono capaci quelli del Pd di rovesciare il segretario e mettere un altro al posto suo? Oppure no?

• Scusi, io porrei la questione in un altro modo. È giusto quello che Renzi ha fatto? Dimettersi a scoppio ritardato fa il bene del paese? Oppure no?
Amico, il bene del paese interessa ai politici solo quando è assicurato il bene loro. Quindi lasciamo perdere. Renzi le risponderebbe che ieri le borse sono andate a meraviglia, quindi il mondo non è preoccupato né del voto né delle manovre sue per sopravvivere. Quanto all’aver fatto bene o male, e in che senso, decideranno gli storici. Valutando la mossa di Renzi in termini puramente egoistici, e cioè se a lui sia convenuta oppure no, si dovrà decidere prelimirarmente se stiamo ragionando a breve termine oppure no. Nel lungo termine è impossibile rispondere. Nel breve termine, e tenendo conto solo delle sue convenienze, forse la mossa è buona. Visto che non s’è eclissato dopo il 4 dicembre 2016 (come sarebbe stato meglio per lui), nell’idea di resistere anche adesso c’è una coerenza di fondo. L’idea nascosta è evidentemente questa: appena mi sfilo, perdo tutto e non avrò più speranza di rientrare in gioco. Potrebbe essere un pregiudizio senza fondamento, per esempio Andreotti, dopo il fallimento del compromesso storico, si ritirò nella commissione esteri della camera e restò fermo quasi cinque anni prima di tornare alla ribalta come ministro degli Esteri. Ma Renzi assomiglia poco ad Andreotti, il cui epigono sarebbe piuttosto proprio Di Maio.  

Che cosa può guadagnare Renzi a ostinarsi così?
Ieri ha detto che le dimissioni sono vere, le ha firmate e non salirà al Quirinale alla testa della delegazione del Pd quando saràil momento delle consultazioni. Però impedirà, restando segretario per il tempo necessario, che il Pd faccia accordi col M5s, che s’aspetta proprio da quella parte il controbuto di voti che gli mancano. Lunedì ci sarà la direzione del partito e lì capiremo se il segretario è nel frattempo andato in minoranza oppure no. In base alle chiacchiere di ieri si sarebbe formata una bella coorte di nemici, alla cui testa sarebbe addirittura l’apparentementer pacifico Gentiloni, indignato per essersi sentito dare dell’«inciucista». E poi certamente Zanda, che un accordo col M5s porterebbe alla presidenza del Senato, Martina, il vicesegretario che lunedì potrebbe dimettersi, la Serracchiani, che s’è già dimessa da segretaria del Friuli Venezia Giulia prendendo atto del cappotto subito dal partito nell’uninominale della sua regione, altre dimissioni sono arrivate da Leonelli che guida il Pd in Umbria, e dalla Tartaglione, segretaria della Campania. Poi Calenda ha fatto sapere che ha intenzione di iscriversi al Pd, col proposito per niente sottinteso di candidarsi alla segreteria. È pronto a scendere in campo («a dare una mano») anche Chiamparino, governatore del Piemonte, il quale ci ha tenuto a far sapere che i suoi rapporti con la sindaca Appendino sono ottimi. Emiliano ha esplicitamente dichiarato che il governo a Di Maio il Pd glielo deve far fare, Franceschini, che Renzi ha accusato esplicitamente, ha precisato che lui ad alleanze con il Movimento 5 stelle o con la Lega non ha mai pensato. Insomma il partito è in subbiglio, e l’idea di Renzi - per rispondere alla sua domanda - potrebbe essere quella di spingere Mattarella a un nuovo turno elettorale, nel quale forse un Pd ancora renziano potrebbe pigliarsi i voti della Bonino e qualche pentito della brutta prova Leu (con D’Alema ultimo a Nardò e gli altri battuti quasi ovunque, Grasso e Boldrini compresi) e forse persino una parte delle spoglie di Forza Italia che, con il tramonto definitivo di Berlusconi, ha l’aria di rappresentare un 14% in liquidazione.  

Possibilità che il M5s trovi appoggi da qualche altra parte? Che Salvini metta insieme quella sessantina di parlamentari che gli mancano?
Mah. Intanto sia Di Maio che Salvini hanno l’aria di aver capito che un incarico tanto per fare non sarebbe un gran regalo. Sanno tutti e due che le probabilità di una seconda prova elettorale a breve sono notevoli ed è quindi necessario che non si macchino l’immagine in questo difficile passaggio. L’elettorato è stato implacabile, e non c’è troppo da scherzare con gli italiani in questo momento storico.  

Dice per le batoste inflitte ad alcuni illustrissimi?
Sì, non parlo tanto di Sgarbi messo sotto a Pomigliano d’Arco proprio da Di Maio (se l’è presa moltissinmo con un pezzo furioso ieri sul Giornale). Ma vogliamo soffermarci sul caso Minniti, forse il più eclatante dopo il 3% di D’Alema a Nardò? Minniti, nonostante tutta la gloria che s’era conquistato l’estate scorsa con la gestione dei migranti, è stato battuto da un certo Cecconi, grillino venuto alla ribalta della cronaca perché s’era trattenuto più quote di rimborsi di quanto il partito avesse permesso. Non ha neanche fatto campagna elettorale, il M5s non l’ha minimamente aiutato, quando le camere si riuniranno ha promesso che si dimetterà, tutto ciò si sapeva anche prima del voto, e nonostante questo nell’uninominale ha preso più voti di Minniti che entrerà in parlamento solo grazie al proporzionale. Capisce perché i tempi, per il vecchio establishment, sono difficilissimi?  

C’entra il vecchio establishment?
È decisivo, nel giudizio generale negativo. Di Maio ha certamente vinto perché è bello e bravo. Ma di sicuro ha vinto soprattutto perché il popolo non ne può talmente più delle facce che vede in giro da sempre, che avrebbe votato, se ci fossimo presentati dalla parte giusta, anche per me o per lei.