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 2018  marzo 06 Martedì calendario

Lo sconcerto del premier. E tra i dem parte la fronda dei big

Nel suo studio al piano nobile di palazzo Chigi, il presidente del Consiglio, in totale silenzio per un quarto d’ora, osserva dal teleschermo l’esternazione del suo amico Matteo. Poi, qualche minuto più tardi, sussurra pochissime parole: «Sono un po’ sconcertato...». Paolo Gentiloni conosce bene Matteo Renzi, ma il coraggioso e plateale azzardo del segretario – me ne vado ma per ora resto – e il suo attacco obliquo al Capo dello Stato per il mancato scioglimento delle Camere nel 2017, prendono in contropiede persino il navigato presidente del Consiglio.
Gentiloni non muove foglia, ma da quel momento anche a palazzo Chigi arrivano mugugni e sbalordimenti che nel giro di due ore si trasformano in una vera e propria fronda.
E così, per la prima volta da quando Matteo Renzi ha assunto la leadership, prende forma un «altro» Pd, che si prepara ad impedire che il leader resti al suo posto nella delicatissima gestione di questa fase.
È qui che si gioca lo scontro al calor bianco esploso nel Pd, dove il segretario sospetta manovre di alcuni big, da Franceschini a Delrio, per sdoganare la prospettiva di un governo con i 5 Stelle, sia pure con formule diverse, da un appoggio esterno ad una partecipazione diretta con propri ministri.
Sono tanti i punti d’attacco di Renzi che hanno irritato i notabili del Pd. Primo tra tutti la chiamata in causa del Capo dello Stato.
Il ministro Andrea Orlando si sfoga con i suoi. «Non puoi pensare che nel momento in cui siamo ridotti in queste condizioni, infili le dita negli occhi al presidente della Repubblica, che è l’unico punto di tenuta del sistema, dando in sostanza a lui la colpa che hai perso le elezioni».
Ma dopo un giro di telefonate tra i big del governo, esce allo scoperto un personaggio solitamente prudente come l’ex capogruppo Luigi Zanda. «Le dimissioni di un leader sono una cosa seria, o si danno o non si danno, senza manovre, serve collegialità».
Per il momento confinato ai colloqui informali è invece lo stupore del ministro della Difesa Roberta Pinotti: «Una linea poco chiara quella del segretario, che rende incerta e più complicata la situazione. Senza un orizzonte collegiale. Quando c’è una sconfitta così netta è necessario che una comunità rifletta insieme. Il partito ha bisogno di ritrovarsi. Renzi ha rivendicato lo straordinario lavoro del Pd: ma anche i 13 mesi di governo Gentiloni sono stati essenziali per fare ripartire l’Italia».
Intanto, dal quartier generale Pd filtra che la prossima settimana ci sarà la Direzione e da aprile dovrebbe partire il congresso e il percorso verso le primarie gestito dal vicesegretario Maurizio Martina.
Ma il sospetto non dichiarato dei «nemici» di Renzi è che se si tornasse presto alle urne sarebbe ancora lui a guidare le danze. Orlando, capo della minoranza, nega manovre, «è chiaro che non possiamo fare alleanze con i 5 Stelle, ma il tema è come si arriva a dire no. Hai qualche milione di elettori del Pd che hanno votato per loro, dunque devi dire che non ci sono le condizioni programmatiche, non demonizzarli», è l’argomentazione che usa nei suoi conversari.
La scelta di Renzi di gestire comunque in prima persona le consultazioni al Quirinale, le nomine dei presidenti delle Camere, di stabilire in solitaria il percorso congressuale, ha preso in contropiede tutti. E l’irritazione è alta. Marco Minniti per esempio non ha gradito affatto di esser stato trattato in conferenza stampa come uno bravo, che però ha perso pure col reprobo dei 5stelle.
E dunque è partita la «guerra civile» nel Pd. Il leader controlla al momento l’assemblea nazionale, dove i numeri sono in percentuali 70-20-10 distribuiti tra Renzi, Orlando ed Emiliano. Ma la sollevazione di ieri sera di tutti i big potrebbe preludere ad una battaglia sul filo dei voti.