La Stampa, 6 marzo 2018
Il segretario teme la nascita del “partito” di Mattarella per fare l’accordo con il M5S
Il 4 del mese, ora è evidente, non è un giorno fortunato per Matteo Renzi, visto che le sconfitte più dure (il referendum costituzionale del dicembre 2016 e la disfatta dell’altro ieri) le ha incassate in due domeniche con la data – appunto – del 4 del mese. Ma il 5, evidentemente, fa parte di un’altra storia: e se non è certo il giorno di una rinascita o di un rilancio, è senz’altro la data-simbolo scelta per l’avvio di una nuova e durissima battaglia.
Matteo Renzi, infatti, non si dimette. Forse lo farà più in là, ma a crederci – nello stesso Pd – sono davvero in pochi. E non si dimette perché nella notte del fatidico 4 marzo, mentre la slavina dell’insuccesso si abbatteva su Largo del Nazareno, gli si è manifestato un fantasma, un nuovo nemico da combattere o – forse più realisticamente – un semplice sospetto che però può servire a dare un senso e a giustificare il suo voler restare in campo.
Dentro il Partito democratico – questa è la certezza di Matteo Renzi – è nato un nuovo partito: il partito di Sergio Mattarella. È nato alle prime luci dell’alba del 5 marzo ed ha registrato subito due iscritti d’eccellenza: Paolo Gentiloni e Dario Franceschini. Primo punto del programma di questo partito, sarebbe lavorare al varo di un governo che veda assieme Movimento Cinque Stelle e Pd. Il secondo punto dl programma è solo la logica conseguenza del primo: isolare e dare scacco matto al segretario in difficoltà. Un partito-fantasma, dunque. Ma con obiettivi assai concreti.
Erano giorni, ormai, che Renzi sentiva scendere dal Colle del Quirinale una brezza che non lo convinceva affatto. E dalla notte di domenica, quella brezza si è trasformata in vento teso: il capo dello Stato, alla luce dei risultati, non esclude la possibilità di un governo del Movimento Cinque Stelle. Ma come elemento di garanzia (verso i mercati, Bruxelles e i grandi investitori) vorrebbe che di quell’esecutivo facessero parte anche ministri del Pd.
Un rospo difficile da ingoiare per un segretario che aveva chiuso la sua campagna elettorale con due slogan fatti più o meno così: mai al governo con estremisti e populisti; se il Pd non sarà il primo gruppo parlamentare, resterà all’opposizione. Concetti che, se non fossero stati sufficientemente chiari, Renzi ripetuto nella breve conferenza stampa di ieri: che doveva segnare il passo d’addio per il segretario battuto e che si è invece trasformata nel punto di partenza di un percorso lungo e assai accidentato.
Questa, almeno, è la convinzione dei sempre più numerosi (e spavaldi) nemici del segretario. Non è tanto questione che riguardi la già dichiarata minoranza interna di Andrea Orlando, che insiste – con scarse possibilità di successo – soprattutto per una gestione collegiale della fase che dovrà portare alla nascita di un nuovo governo. A registrare le maggiori preoccupazioni sono uomini fino a ieri alleati di Renzi e che oggi vedono nella posizione ribadita dal segretario (mai al governo con i Cinque Stelle) soltanto l’occasione per riaprire uno scontro che potrebbe produrre nuovi strappi e lacerazioni.
Paolo Gentiloni e Dario Franceschini sono stati i primi a valutare legittime le preoccupazioni e le intenzioni del Capo dello Stato. Ma a loro si sono rapidamente accodate altre personalità di primo piano. Per esempio Del Rio e altri esponenti dell’ala cattolica del Pd che – al di là dell’opportunità di stare in un governo a trazione Cinque Stelle – non hanno apprezzato affatto toni e contenuti delle comunicazioni svolte ieri dal segretario.
Gestione non collegiale della crisi, una delegazione per il Quirinale che sarà caratterizzata da due nuovi capigruppo di provata fedeltà renziana e un percorso verso Congresso e primarie lungo e indefinito sono – per questo neonato partito-fantasma – condizioni difficili da accettare. Si aspettavano un’uscita di scena di Renzi fatta di autocritica e discrezione: si sono trovati davanti un segretario che mentre annunciava l’addio elencava ragioni, strumenti e obiettivi per un immediato ritorno.
La preoccupazione vera, a questo punto, riguarda la tenuta del Pd e – soprattutto – le reali intenzioni di Matteo Renzi. Perché questa nuova prova di forza? Il segretario mette nel conto nuove uscite dal partito o – addirittura – potrebbe lasciare lui il Pd, motivando l’abbandono con l’accusa di subalternità a «estremisti e populisti»? Difficile dirlo. Ma certo, nei ragionamenti di molti esponenti del Pd comincia a prendere forma un sospetto: perché Renzi e i suoi fedelissimi si sono tutti candidati al Senato?
Se le cose in casa democratica si mettessero per il peggio, quel folto drappello – in fondo – è lì pronto per due diversi utilizzi. Il primo: costituire una «opposizione di blocco» capace di ostacolare la nascita di qualunque governo. Il secondo: rappresentare il nucleo fondante di una nuova formazione politica. Non più, viste le sconfitte, il tanto temuto Partito della nazione: ma un soggetto che possa comunque permettere a Renzi di continuare la sua battaglia. Sotto altre insegne, certo: ed è un peccato. Ma tutto, proprio tutto, solo e soltanto per colpa di quel maledetto 4, infausto giorno d’inizio mese.