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 2018  marzo 06 Martedì calendario

Reddito di cittadinanza al Sude la flat tax per il Nord. Il segreto dell’onda No Global



Anatomia di una rivoluzione italiana. A dieci anni dalla crisi del 2008, il vento No Global spinge al centro della scena i partiti anti-sistema e divide il Paese in due parti uguali, consegnando il Nord alla Lega del felpato Matteo Salvini (e ai suoi partner minoritari di Forza Italia), e il Sud al Movimento 5 Stelle del bambino azzimato Luigi Di Maio, sulla spinta di uno slogan facile facile – «Prima gli italiani» – e di due suggestioni tanto efficaci elettoralmente, quanto rischiose da realizzare contabilmente: flat tax e reddito di cittadinanza, che poi reddito di cittadinanza non è.
Tasse al 15% per far sognare gli imprenditori settentrionali e i loro dipendenti, 780 euro al mese per chi ha molti debiti e nessun lavoro, per dare speranza ai ceti disagiati del Meridione. Impresa privata senza catene da una parte, cassaforte pubblica dall’altra. Il fisco amico contrapposto a un assistenzialismo sostitutivo del welfare sempre più fragile. Sono le due calamite che garantiscono un voto su due al nuovo pervasivo potere nazional-populista, dando vita alla fresca profezia dell’ideologo trumpiano Steve Bannon: «Qui da voi i populisti voleranno. Un’alleanza Lega-M5S trafiggerebbe Bruxelles al cuore». Il volo c’è stato. L’alleanza ancora no.
Eppure il Nord e il Sud No Global hanno qualche sensibilità comune ma necessità profondamente diverse. Sognano assieme il blocco e l’espulsione in massa degli immigrati (tema che pesa quanto la flat tax e il reddito di cittadinanza) e sognano anche la fuga dall’Europa, l’abolizione del Jobs Act, della legge Fornero e magari anche dei vaccini obbligatori. Ma poi si guardano il portafoglio e, in questa strana corsa del gambero che rifiuta la globalizzazione senza poterne più fare a meno, decidono di percorrere strade opposte.
La psicologia dell’elettorato, soprattutto nei piccoli centri, è la medesima. Le esigenze no. Un problema di geografia economica esposto con chiarezza nell’ultimo rapporto Svimez: «L’occupazione è ripartita, ma mentre il Centro-Nord ha già superato i livelli pre crisi, il Mezzogiorno resta sotto il livello del 2008, con un tasso di occupazione che è il peggiore d’Europa». Il lavoro, che al Nord è tornato e al Sud non c’è mai stato. Il Nord vuole correre liberandosi della zavorra del Sud. E il Sud non si sente zavorra ma vittima. Intanto la Calabria ha il record di disoccupazione continentale e Sicilia e Sardegna hanno un tasso di disoccupazione giovanile doppio del resto d’Europa. Un tema gigantesco, che finisce al centro delle agende del Pd soltanto in campagna elettorale. Fino a quel momento i professionisti della politica classica erano evaporati. Così gli elettori, spinti dalla mitologia tossica del sacro web, hanno cominciato a pensare che i problemi si possano risolvere anche da soli o con i compagni di banco. Che le competenze non servono. E quando nulla è vero, allora tutto è permesso. Il richiamo del reddito di cittadinanza è stato irresistibile. La massa ha votato come se avesse reagito a un comando impartito simultaneamente, ma in realtà quel comando arrivava da lontano, dagli anni della crisi e delle paure rimaste senza risposte. Il popolo degli infelici si è ingrossato fino a diventare marea, stufo della naturalezza con cui il sistema appena crollato parlava di una realtà planetaria dai destini progressivi e che invece ormai riguarda pochi ed è sempre più friabile, per niente sacra, tanto meno fatale, ma solo contingente, fastidiosa, inaccettabile.
La suggestione, soprattutto al Sud, si è sommata ai fatti. Napoli, Foggia e Bari sono le tre città più pericolose d’Italia per concentrazione criminale e nel Napoletano il 19,76% dei ragazzi non arriva al diploma, il 35,8% degli alunni non raggiunge livelli sufficienti di competenza matematica e il 28% non sa leggere. Che cosa hanno fatto i partiti di sinistra in questi anni per dire: vi aiutiamo noi? Lo stesso che hanno fatto nel Nord dei lavori precari da quattro euro l’ora. Niente. Salvo togliere garanzie e mettere a rischio il patto sociale.
Padre Alex Zanotelli, impegnato nella lotta per ridare speranza al quartiere Sanità, racconta da molti anni questa storia: «Qui, in 5 chilometri quadrati, vivono 65 mila persone. Non c’è un asilo comunale. C’è una scuola elementare ma non ci sono le medie. Infine c’è una sola scuola superiore che ha il secondo tasso di abbandono più alto d’Italia». C’è la città bene, quella di Chiaia, del Vomero, di Posillipo, e poi ci sono il centro degradato e le periferie come Scampia, Barra e Ponticelli dove ogni giorno si sfidano 70 clan criminali. La città bene, sempre più ristretta, ieri ha votato Pd, la città povera, ma anche ceti medi, professori universitari e professionisti stanchi dell’accerchiamento, ha dato il voto al Movimento 5 Stelle in una sorta di plebiscito.
La politica di sistema non c’è più. E dove c’è fa danni. In Sicilia Gianfranco Micciché, ex dirigente di Publitalia e presidente dell’Assemblea Regionale, appena insediato si è detto contrario al taglio degli stipendi alti, anche quando arrivano a 350mila euro l’anno, vale a dire ventiquattro volte quello che guadagna un abitante di Agrigento. Non è difficile capire perché i 5 Stelle abbiano preso il 50% dei voti e tutti i 28 collegi uninominali dell’Isola.
In questi anni dannati Renzi e il centrosinistra, Berlusconi e il centrodestra, hanno guardato indietro credendo di esistere e invece erano solo in ritardo sulla vita. Hanno creduto di impartire lezioni quotidiane ai grillini e invece gli hanno solo insegnato come si fa. Brutto errore.
I partiti tradizionali oggi tengono solo nelle grandi città come Roma, Milano (la vera eccezione di questa storia) o Torino, dove il senso di appartenenza al mondo è un dato acquisito. Per il Nord invece c’è il centrodestra, capace di imporsi per la prima volta in Emilia Romagna e di ribadire la propria leadership assoluta trainato dalla Lega, che se individuasse al Sud un leader paragonabile a Salvini (e meno debole della Meloni), potrebbe prendersi il Paese intero. È presto. Perché, dice il professor Roberto D’Alimonte: «Dire di votare Lega al Sud non è ancora socialmente accettabile». In Veneto e in Lombardia è accettabilissimo. È un’Italia che sembra Europa, dove crescono gli ordini dall’estero e «l’indice di disoccupazione è in linea con gli indici più virtuosi del Continente», segnala la Confindustria.
Il Veneto, poi, secondo l’Eurostat ha il Pil più alto d’Europa e le tasse pagate dai suoi abitanti, sommate a quelle dei lombardi, arrivano a 70 miliardi. Per questo il governatore Luca Zaia insiste: «Salvini premier è la strada più veloce verso la nostra autonomia». Autonomia. Altra parola magica che piace ai veneti, ai lombardi, ai liguri, ai piemontesi e agli emiliani, uniti dalle promesse di un leader che dice: «Sono e rimango orgogliosamente populista, di radical chic che l’operaio lo schifano e la spesa non la fanno, gli italiani non ne possono più». Di lotta e di governo. Il Movimento al Sud, la Lega al Nord, Di Maio e Salvini, professionisti degli slogan ad effetto che adesso sono chiamati a governare, tenendo presente che – come dice il pensatore francese Claude Lefort – individualismo e cultura di massa sono processi irreversibili e bisogna cercare di capire qual è la contropartita al vizio che essi rappresentano. L’antisistema è diventato sistema. Portando tutti noi in un territorio sconosciuto. È la fine dei punti di riferimento tradizionali. Ma chi prende le distanze schifato dalle scelte di massa semplicemente non capisce che la democrazia è all’opera. E allora incrociamo le dita.