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 2018  marzo 06 Martedì calendario

«Costruisco yacht per gli emiri, ma io la barca non ce l’ho». Intervista a Mario Pedol

La silhouette dello yacht più grande del mondo, Azzam, proprietà d’un principe arabo, porta la firma di Nauta Yachts: lo studio milanese dove quindici professionisti, fra designer, architetti e ingegneri si occupano della progettazione e design di barche di lusso, personalizzate e di serie, a vela e a motore. Una bottega creata nel 1985 da Massimo Gino e Mario Pedol, presidente e volto dello studio. 
Per la verità, Mario Pedol era destinato al mondo della finanza. Ma al sedicesimo esame in Bocconi, piantò tutto e si iscrisse all’Istituto Superiore di Architettura e Design di Milano. Aveva preso il sopravvento la passione per la vela e per le regate. E chissà, forse entrarono in campo anche le ragioni del Dna. Perché nonno Pedol era ufficiale sui transatlantici sulla rotta Genova-New York. E quei racconti di viaggi per mare esercitarono un fascino irresistibile sul nipote che appena poteva raggiungeva il mare per veleggiare.
A proposito di avi e di Dna. Pedol non è un cognome lombardo
«Genitori e nonni sono istriani, ma avevano una base a Milano dove poi si trasferirono definitivamente dopo l’ultima guerra. Io sono nato e cresciuto proprio a Milano».
E nel capoluogo lombardo a trent’anni aveva già avviato il suo studio. 
«Prima avevo fatto uno stage d’apprendistato in città, quindi ero andato a New York per un’esperienza da Scott Kaufman, designer australiano di yacht. All’Isad ho incontrato i più grandi professionisti, da Fulvio De Simoni, a Epaminonda Ceccarelli, Massimo Gregori, Sergio Abrami, Andrea Vallicelli. Era così affascinante scoprire il funzionamento di una barca, i trucchi del mestiere, lì trovavo risposte alle domande che mi ponevo da tempo. Nel 1985, con Massimo Gino e altri due soci creammo Nauta: un termine che contiene tutto, un messaggio completo. Facevamo progettazione, costruzione, marketing e vendita. Ci occupavamo di tutto».
Dov’era il cantiere?
«A Fano. Era un cantiere di allestimento, nel senso che facevamo impresa aggregando varie unità. Noi assemblavamo le componenti costruite però sotto la nostra supervisione». 
Poi il cambio di rotta
«Abbiamo chiuso la struttura produttiva nel 1994, dopo la crisi del 1992-93. Le aziende del settore stavano soffrendo molto. Pensammo che sarebbe stato saggio capitalizzare le competenze che avevamo acquisito progettando e costruendo in autonomia. Inoltre avevamo a disposizione un bel bacino di clienti, e relativi amici, che ci chiedevano di progettare barche, ma anche di noleggiarle, spesso volevano consulenze e supporto nella compravendita. Così fondammo l’attuale Nauta Yachts che, appunto, si occupa di progettazione e design, ma anche di intermediazione nel noleggio e nell’acquisto di barche».
Quali sono stati gli anni determinanti? Quando ha sentito di avercela fatta?
«La nostra crescita è stata costante. Inizialmente avevamo un mercato esclusivamente italiano. Poi nei primi anni Novanta, abbiamo iniziato a lavorare anche per clienti stranieri. Dal Duemila in poi, abbiamo spiccato il volo e operiamo a livello mondiale». 
Eravate spaventati all’idea di disegnare il più grande yacht al mondo?
«Ci è stato subito chiaro che sarebbe stata una prova particolarmente impegnativa per lo studio. Ricevetti la conferma della commessa durante la Maxi Yacht Rolex Cup, ero a Porto Cervo. Ma dopotutto l’armatore non chiedeva volumi esagerati in relazione alla lunghezza dello yacht. Riuscimmo a portare in scala più grande la nostra storica visione di equilibrio tra le masse della sovrastruttura, mantenendo una pulizia di linee. In generale il livello di richieste era molto alto in termini di dimensioni, prestazioni e soluzioni tecnologiche». 
E dopo Azzam ci sono all’orizzonte altri emiri o sceicchi?
«Qualche progetto c’è».
Il panfilo del principe arabo ha avuto un impatto mediatico importante per il vostro studio. Ma di quale altro progetto va particolarmente orgoglioso?
«Di My Song, una barca a vela di 40 metri, supertecnologica, con tante innovazioni, ma allo stesso tempo dall’architettura di interni ed esterni estremamente accogliente. È stata molto apprezzata e, devo dire, super-premiata in tutti concorsi cui ha partecipato».
L’armatore è Pierluigi Loro Piana, della famiglia dei re del cashmere. Il vostro è un lungo rapporto
«In effetti abbiamo condiviso sette progetti, ci segue dall’inizio. Ha passione per le performance e sa vivere il mare, la natura, la convivialità che ti può offrire la barca». 
Se decidesse di progettare una barca tutta per sé, come la farebbe?
«Non ho dubbi: come i due ultimi My Songs. Penso a una barca che soddisfi il piacere fine a se stesso di andare a spasso per mare godendosi la natura, il relax. Ma allo stesso tempo deve essere uno strumento sportivo, un vero cavallo di razza».
Come definirebbe il suo rapporto con il mare?
«Quando sono sull’acqua avverto un piacere tangibile, ed è un qualcosa che capita tutte le volte. Mi accorgo quando ci arrivo che mi manca». 
Dove le piace veleggiare?
«Nel Mediterraneo: il più bel mare del mondo. Penso alla bellezza della natura, delle coste, alle meraviglie storiche e culturali. Purtroppo mi manca il tempo per dedicarmi alla barca quanto vorrei, cerco di farlo durante le vacanze. La vela rimane una delle vacanze che preferisco».
Che barca ha?
«Non ne ho. Non più».
Come è possibile?
«L’affitto, oppure vado con amici o clienti. Ho troppo poco tempo per avere una barca tutta mia. La barca richiede dedizione».
Chi non va in barca cosa si perde?
«Il sapore della libertà che raramente altre esperienze danno. La barca ti consente di stare a contatto con la natura senza barriere e ostacoli. Puoi muoverti, viaggiare».
E con la montagna, invece, che rapporto ha?
«Del tutto simile. Molti si sono chiesti come facesse uno di Milano come me a fare questo mestiere. A Milano non c’è il mare, mi sono sentito dire spesso. Sarà per il clima sfortunato di questa città, ma vedo che conta tanti appassionati di mare e montagna, anzi spesso le due passioni vanno a braccetto. Molti dei nostri clienti iniziali erano proprio piemontesi e lombardi, persone con la propensione per la natura».
E ora i vostri clienti da dove vengono? 
«Per quanto riguarda la vela, settore in cui siamo maggiormente conosciuti, i nostri clienti vengono anzitutto dai Paesi dell’Europa Occidentale, da Usa e Sudamerica. Per le barche a motore, il mercato principale è il Medio Oriente. Però anche l’Asia sta crescendo. Per non parlare dell’Australia, Malesia, Indonesia: aree sempre più interessanti e che hanno sofferto meno la crisi degli ultimi anni. Il mercato russo prima era fiorente, poi ha subito una battuta d’arresto, ora si sta riprendendo».
Capita spesso di dover rinunciare alle proprie idee e scendere a compromessi per adeguarsi al gusto dei committenti?
«Ci è capitato di rado. Abbiamo un certo stile, chi si rivolge a noi lo apprezza quindi non dobbiamo tradirci. È accaduto anche con Azzam».
Che rapporto nasce con il cliente? I contatti sono diretti o lavorate tramite intermediari?
«Per fortuna nella maggior parte dei casi il rapporto è diretto. Poi ci sono situazioni particolari. Per i royal yachts, per dire, c’è una persona delegata ad occuparsi delle varie questioni, e che poi fa riferimento al committente finale. Uno degli aspetti interessanti della nostra attività sta proprio nella relazione con l’armatore. C’è tanta condivisione, conoscenza reciproca, capita spesso che nascano anche rapporti di amicizia oltre che di stima».
Fra i vostri clienti eccellenti c’è Renzo Piano. È difficile lavorare per e con un collega?
«Non solo non è stato difficile, l’ho trovato divertente e stimolante. Sono nate una relazione e una condivisione veramente speciali. Il lavoro è stato a quattro mani, parliamo la stessa lingua, è intrigante vedere che le logiche e i percorsi progettuali e mentali sono gli stessi. Pur in ambiti diversi il metodo e le logiche sono simili».
Lei nasce velista. Preferisce progettare barche a vela rispetto a quelle a motore?
«Il primo amore è la vela, vero. Però oggi il mercato è orientato sul motore che, in realtà, offre la possibilità di spaziare di più. E comunque i due mondi non sono in contrapposizione come un tempo, anzi c’è quasi una sorta di osmosi. Il rapporto a dialogo tra gli interni ed esterni, ad esempio, è sempre più determinante in entrambe le tipologie». 
Lei è uomo concreto. Nell’immaginario comune, il profilo del designer è un poco diverso...
«Io lavoro in un mondo di concretezza. La barca è un oggetto complesso, oltre alle funzioni abitative normali deve muoversi in un ambiente potenzialmente avverso come il mare. In più la barca a vela deve assolvere a tutte le sue funzioni anche quando è sbandata. Questa complessità abitua alla concretezza. A questo si aggiunge il fatto che la barca è anche oggetto del desiderio e passione, e quindi non si può prescindere dall’aspetto emozionale, dall’attrazione e dallo charme. Penso che l’aver saputo conciliare gli aspetti funzionali con l’estetica e fascino sia stata la chiave del nostro successo». 
Si occupa solo di design di barche o sconfina anche in altri settori, magari per curiosità?
«Per il 99% disegno barche. Mi è capitato di occuparmi di una casa molto speciale. Un mini-appartamento di 36 metri quadrati, a Milano, nella zona di Porta Nuova Hines Italia. Nonostante i volumi limitati deve soddisfare quattro esigenze: Work, Networking, Eat e Sleep, (lavoro, connessione, cibo e sonno). L’hanno chiamata 4@1 Home». 
Effettivamente chi si occupa di barche è maestro nel capitalizzare ogni centimetro
«Il committente, Coima, ci chiamò proprio per la nostra esperienza nel lavorare su ambienti piccoli». 
Il vostro studio è a un passo dall’area architettonicamente più moderna della città. Le piace la nuova skyline di Milano?
«Dal nostro studio vediamo l’Arco della Pace, a est la Torre di Unicredit di Porta Nuova che per le sue forme offre tramonti bellissimi: è uno spettacolo in quella mezz’ora in cui cambia la luce. A ovest ci sono altre due torri e fra poco tre. Tanti giochi di curve interessanti e la nuova skyline ha tutta la mia approvazione». 
Abbiamo parlato di barche costruite ad personam. Ma Nauta Design ha anche un rapporto privilegiato con Bénéteau, settemila dipendenti e oltre un miliardo di fatturato.
«In dodici anni, con loro abbiamo firmato più di 9mila barche. Ci proponemmo alla signora Annette Bénéteau Roux che poi ci richiamò nel momento in cui voleva riportare il prodotto all’avanguardia del mercato. Disse che cercava i migliori in campo, voleva dare un’ulteriore spinta al marchio. Così come avevano fatto coinvolgendo nomi come Pininfarina e Philippe Starck. Pochi mesi dopo, lavoravamo a due progetti su modelli di 46 e 50 piedi. Fu un successo incredibile, dovettero raddoppiare la linea di produzione. Da lì abbiamo iniziato a occuparci degli interni della gamma Oceanis, il 30% del fatturato di Bénéteau, e dei catamarani Lagoon». 
Si può pensare che il sogno di qualsiasi designer sia realizzare barche «su misura».
«Il progetto ad personam dà maggiore libertà e può essere divertente. Ma la grande serie è affascinante, devi capire e interpretare le tendenze che emergeranno, quasi scommettere sul futuro».