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 2018  marzo 03 Sabato calendario

Budapest la trasformista

Quando Claudio Magris arriva a Budapest, in quel mitico viaggio che poi diventò il suo best-seller Danubio, seguendo il corso del fiume che univa la Germania al Mar Nero, o all’Asia, la descrive così: «Budapest è la città più bella del Danubio. Una sapiente automessinscena, come Vienna, ma con una robusta sostanza e una vitalità sconosciuta alla rivale austrica. Budapestdà la sensazione fisica della capitale, con una signorilità e un’imponenza da città protagonista della storia, nonostante il lamento di Endre Ady per la vita magiara “grigia, color della polvere”». Certo, la Budapest moderna è una creazione recente, ben diversa dalla città Ottocentesca, che come scriveva Mikszath beveva vermouth serbo e parlava tedesco. «La magnificenza metropolitana di Budapest, che si basa sulla solida realtà di una crescita socio-economica, presenta anche il volto di un seducente illusionismo. Perché se la Vienna moderna imita la Parigi del barone Haussmann, con i suoi grandi boulevard, Budapest imita a sua volta questa viennese urbanistica di riporto, è la mimesi della mimesi», la copia della copia. O, suggerisce Magris, quel che Platone intendeva per poesia.
Il nostro viaggio partirà da Buda, la collina che sovrasta il Danubio, il cuore antico del Regno d’Ungheria con la chiesa di Mattia, il palazzo reale, il borgo dei pescatori. E si unisce, come l’altro polmone – fino a formare un’unica capitale – a Pest, la città ottocentesca del commercio e della politica – la città delle illusionistiche, bellissime facciate di quell’ocra che sembra allungare le pianure della Pannonia nei muri delle città. 
È qui che Budapest ha costruito il suo carattere fatto di gigantismo e rigoglio flamboyant, che corrisponde all’alleanza tra capitale ungherese e l’aquila asburgica, e si traduce – per il passante in strada – anche nell’ecclettismo storicistico dell’architettura, ad esempio il nuovo Parlamento gotico-barocco di Imre Steidl (che visiteremo). Budapest, in sostanza, al suo meglio è il risultato di quello strappo, quando nel 1867 Vienna capitolò al secessionismo magiaro. Quando l’Impero austroungarico, per non morire, reagì con l’ Ausgleich, «la parità», e rispose alla propria ferita, e disfacimento, inglobando ed elevando i ribelli ungheresi, cedendogli (mezza) Corona.
Rivivremo quell’epoca nel caffé Gerbeaud. Ci ritufferemo nelle atmosfere della B elle époque al tramonto sotto i soffitti vetrati dei bagni Gellért, che all’epoca (e forse ancora) sono i più belli del mondo. E inseguiremo la rivalità e complicità con Vienna fino al castello di Gödöllö, il più amato dall’imperatrice Sissi.
Ma che Budapest è quella che ci accoglie, cosa resta o come coesiste questa storia con il Paese di Viktor Orbán, chiuso ai migranti, la democrazia autarchica protetta da reticolati? Cercheremo di rispondere, indagando anche il carattere di questa terra, nella quale si sono stratificate e mescolate ondate di invasioni e di stirpi diverse, unni e avari, slavi e magiari, tartari, turchi e tedeschi. 
Un Paese dominato e dominatore per secoli, inseguitore e a volte all’avanguardia, il Paese dei trasformismi (non solo opportunismi), ribelle e insofferente, che durante la Guerra fredda fu il più liberale, democratico e ondivago di tanti Paesi dell’Est. Parleremo – magari davanti al Monumento della Liberazione, eretto dall’Armata Rossa nel 1947 sulla collina Gellért per celebrare la fine del nazismo – di quella celebre rivolta ungherese del 1956 che segnò un’epoca. E vale la pena rileggersi oggi le pagine che scrisse sul Corriere Alberto Cavallari, allora inviato e trent’anni dopo direttore, che per un giorno diventò egli stesso notizia quando si pensò che l’avessero fatto prigioniero i russi. Invece, Cavallari cercò di raggiungere Vienna e passò la notte con gli insorti, per dare la notizia, con un giorno d’anticipo su tutti, che la rivoluzione non aveva vinto, come si credeva, ma stava finendo e stava cominciando la repressione sovietica. Il pezzo non arrivò mai per tempo in redazione, e oggi nell’archivio, nel dispaccio laconico del giorno dopo, si legge dell’auto impantanata nella neve, che non riesce a proseguire, mentre si sentono gli spari, e Cavallari si imbatte quasi per caso di notte nei carri armati che si stanno disponendo in un raggio gigantesco e stanno chiudendo l’Ungheria.
Quell’Ungheria è compatibile con l’immagine che ne abbiamo oggi? Forse sì. Nei suoi trasformismi, nel feroce orgoglio nazionale, che ne è stato a lungo carburante, nelle laconiche resistenze al potere di Orbán, esiste un filo rosso che lega la problematica modernità di oggi, portata dalle multinazionali, alle conquiste, dominazioni e tante rivoluzioni fallite del passato. Di fronte alla messinscena del mondo, Budapest resta il palco un po’ defilato ma con splendida vista. Non è mai stata una provincia dimenticata, ma una che ha fatto la storia, spavalda e flamboyant.