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 2018  marzo 02 Venerdì calendario

Katherine Anne Porter: la scrittrice Pulitzer che sapeva trasformare i dolori in sorrisi

Vincitrice di un Pulitzer, ma ingiustamente perdente con il Nobel, al quale per ben tre volte fu inutilmente candidata. 
Katherine Anne Porter, una delle più grandi scrittrici americane (la più forte del Texas), letterariamente sangue misto fra il profondo sud e il respiro globale del mondo, nata nel 1890 e morta nel 1980, per curiosa contrapposizione di numeri e secoli, alfiere delle speranze perdute nella vita di ognuno di noi, disagiata nell’amore e nella salute: contrasse la gonorrea dal secondo marito, subì un’isterectomia. si ammalò di tisi, eppure visse sino a novant’anni. Le illusioni frustrate erano il prezzo ricorrente pagato da molte donne nel secolo scorso. Il dolore di Katherine iniziò con la morte della madre quando era bambina e si alimentò nell’istituto religioso dove era stata confinata dal padre. Fuggì da quella prigione a sedici anni per sposare il primo marito come rifugio alternativo, e poi ci furono il secondo, il terzo e il quarto, nell’eterna illusione di felicità condivisa. Una penna sontuosa, forte, che turba e sconvolge nel profondo. 
LO SPECCHIO INCRINATO 
E che ora torna con un consistente volume The collected stories ormai un superclassico, che già fece il giro del mondo in svariate edizioni, mancava la tappa italiana. Il titolo originale The collected stories diventa Lo specchio incrinato (Bompiani editore, pp 636, euro 30, efficace traduzione di Giovanna Granato). Comprende ventisette racconti (tra brevi e lunghi come li definisce lei), suddivisi in tre parti, ognuna distinta da un titolo che li raccoglie: L’albero di Giuda in fiore, Bianco cavallo bianco cavaliere, La torre pendente e altri racconti. Fu Katherine stessa ad annunciarlo, con una prefazione datata 14 giugno 1965, intitolata «Va, librino...». Sono racconti pubblicati sulla rivista Century Magazine, che oggi non esiste più, per scelta del direttore Carl Van Doren, il primo che disse a Katherine, senza esitazione, nel 1923: «Sei una scrittrice, ne sono convinto!». In seguito, fa notare l’autrice, molti altri nomi famosi si sarebbero attribuiti il merito della sua scoperta, ma lei ci tiene a sottolineare che fu soltanto lui, a “fiutarla”. E fornisce una definizione tecnica delle proprie opere: romanzetti è un termine usato per volgari libercoli da quattro soldi, novella è una parola fiacca, smidollata e artificiosa che non serve a definire un bel niente. La sua raccolta, spiega, si avvale di tre tipologie: «racconti brevi, racconti lunghi, romanzi brevi e romanzi». I quali, aggiungiamo noi, sono stati tradotti in molte lingue e paesi diversi. Lei lo ha vissuto come un distacco, con malinconia e sofferenza, per cui scrive: «Separarsi è un po’ morire, si dice (in ogni lingua, ma quello che do a questi racconti è un addio lieto, perchè ne rinnova la vita e ne prolunga l’esistenza sul pianeta, ed è questa la massima aspirazione di ogni artista. Va, librino...». Il librino, come lo definisce modestamente Katherine, prende il largo, con la forza di una corazzata e la precisione di un missile devastante nel colpire al cuore, nel descrivere i sentimenti più forti dell’umana avventura, odio, amore, tenerezza, passione. E così inizia la cavalcata, in ventisette racconti. Quadri indimenticabili nei colori, negli odori, nei colpi di scena. Forti e sorprendenti. Qualche accenno agli interpreti del teatro dell’esistenza secondo la Porter: Maria Concepcion, che ucciderà la rivale e adotterà il figlio che la poveretta ha avuto dal suo amante. Violeta, quasi quindicenne, che «era su un pouf con le ginocchia strette al petto e guardava sua sorella Blanca e suo cugino Carlos che leggevano a turno poesie», ma poi avrebbe conosciuto la violenza di lui. 
LA NAVE DEI FOLLI 
E ancora il giovanotto sconosciuto, con un cespuglio di capelli castani, che nel racconto L’albero di Giuda in fiore, si era fermato per due ore a cantare come un’anima perduta nel patio di Laura, ma lei non aveva saputo che farsene. Mentre «la luna spargeva una patina d’argento velato sugli spazi sgombri dell’orto e le ombre erano blu cobalto. I fiori scarlatti dell’albero di Giuda...». Il suo unico “romanzo lungo”, per dirlo con le sue parole, fu La nave dei folli, come il titolo del quadro di Hieronymus Bosch. Nel 1965 divenne un film diretto da Stanley Kramer, nel cast Vivien Leigh, Simone Signoret, Lee Marvin, raccontava vicende insospettabili intrecciate tra i passeggeri. Sono solo uno spicchio della smisurata umanità che “affolla” ogni sua opera.