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 2018  marzo 02 Venerdì calendario

Colombo, il re dei commercianti di cavalli: «Se l’Italia non copia gli Usa addio ippica»

Eugenio Colombo, mi sconosciuto in Italia eppure uno fra i maggiori broker di cavalli da corsa del mondo. Oggi 76enne, molti anni fa dopo una caduta da cavallo per restare nell’ambiente deve optare tra fare l’allenatore di purosangue, o il broker, cioè colui che acquista e vende cavalli su commissione. Sceglie la seconda opzione e nel 1979 parte per gli Usa, «il più grande mercato di cavalli da corsa al mondo con circa 22.000 affari l’anno». 
Colombo non era nuovo del mestiere. Alla fine degli Anni 60 aveva venduto in Usa un ottimo cavallo della scuderia Fert dal curioso nome di Bacuco, 
che aveva saputo battere in un Gp a Milano Ortis, portacolori di Carlo Vittadini, presidente della Banca Agricola Milanese. Poi è stato un susseguirsi di successi con clienti che si chiamavano e si chiamano Aga Khan, Daniel Wildenstein, e oggi, Frank Stronach, Peter Brant, Arthur Hancock. I suoi colpacci? Tony Bin, il purosangue di Luciano Gucci, venduto per 4 milioni di dollari. E Falbrav, appartenente a Luciano Salice. Colombo ne volle il passaggio in training da Luciano D’Auria in Italia, a Luca Cumani in Inghilterra. Fu così che riportò vittorie importanti che consentirono una vendita eccezionale in Giappone. E poi The Night of The Stars, asta di fattrici qualificate battute per 48 milioni di dollari. 
«Operare come agente mi permette di girare il mondo, conoscere persone, frequentare ippodromi e allevamenti per apprendere, confrontare metodi di allenamento, stili e culture ippiche», spiega Eugenio, «a breve partirò per l’Australia, mentre ogni anno torno in Giappone». Colombo ha una profonda conoscenza delle morfologie e delle genealogie del purosangue inglese. «Di ogni grande cavallo è necessario memorizzare la struttura per confrontarla con quella dei suoi prodotti e dei suoi discendenti, anche i più lontani. Quality Road (importante vincitore americano, ndr) somiglia molto al suo antenato Sir Ivor che ricorre addirittura in quarta generazione. Nella valutazione di un puledro conta molto il pedigree, ma è quando corrono che il Dna diventa rilevante». 
E l’Italia? «Non ci vengo da 4 anni: l’ippica italiana non c’è più. Quel mondo che ha dato i natali a Federico Tesio, il grande allevatore e allenatore di Nearco e Ribot, a Giuseppe De Montel (quello delle scuderie che il Comune di Milano ha lasciato marcire, ndr) e Orsenigo, il suo miglior cavallo, sta morendo». Una verità incontrovertibile. «Il declino nasce dai pagamenti delle corse ai cavalli vincitori che giungono anche con 8 mesi di ritardo, mentre allenatori e proprietari sono costretti ad anticipare di tasca loro fieno, paglia, costo dei box. E poi gli ippodromi sono troppi. C’è un unica soluzione», spiega, «fare come in America, in Giappone, dove l’ippica è figlia del fisco. In cui allenatori e proprietari possono operare grazie alle detrazioni fiscali. Un meccanismo di fertile sviluppo per tutto il settore».