Il Messaggero, 3 marzo 2018
Come i 7 vizi capitali regolano l’economia
Nel suo famoso libello Delle cinque piaghe della santa Chiesa, Antonio Rosmini indicò le cause e i rimedi della crisi che stava affliggendo il cattolicesimo dell’Ottocento. L’opera annunciava sgradite verità, e fu messa all’indice. Un secolo dopo, il Papa riconobbe che il filosofo aveva ragione, e lo fece beato.
Con la stessa schiettezza e competenza, Carlo Cottarelli elenca oggi nella sua opera I sette peccati capitali dell’economia italiana gli altrettanti vizi del nostro infelicissimo Paese. L’autore riconosce che si tratta di un elenco riduttivo, e che il suo numero ubbidisce a una sorta di emulazione catechistica e dottrinale. Nondimeno è un elenco significativo e credo che ognuno di noi lo condivida. Le piaghe sono nell’ordine: l’evasione fiscale, la corruzione, l’eccesso di burocrazia, la lentezza della giustizia, il crollo demografico, il divario tra il Nord e il Sud, e la difficoltà a convivere con l’euro. Ognuna di loro meriterebbe un trattato, ma Cottarelli dice l’essenziale: per ragioni di importanza, e di spazio, mi limiterò alle prime quattro.
L’evasione fiscale. Premesso che nessuno paga le tasse volentieri, e che l’evasione è diffusa in tutto il mondo, è vero che da noi è più estesa ed intensa. Le ragioni, dice Cottarelli, risiedono: A) nella nostra struttura economica, cioé nella eccessiva diffusione del lavoro autonomo, delle piccole imprese e dell’uso del contante B) nella nostra politica fiscale, con aliquote troppo alte, una sperequazione tra la tassazione dei redditi e quella dei consumi, e un costo eccessivo negli adempimenti burocratici. C) nella inefficienza dell’apparato repressivo e D) nella mancanza di senso civico, o, come lo definisce l’autore, di capitale sociale. I rimedi sono di conseguenza: una semplificazione normativa, una riduzione delle aliquote e dei costi di pagamento, l’uso preferenziale di strumenti che rendano tracciabili le transazioni, sanzioni più efficaci e naturalmente una maggiore sensibilità per l’interesse collettivo.
Veniamo alle altre tre. L’eccesso della burocrazia, la corruzione e la lentezza della giustizia costituiscono il nocciolo duro del libro. Cottarelli vi dedica tre distinti capitoli, ma poiché molti argomenti sono simili i tre fenomeni possono essere, come si dice in giuridichese, esaminati congiuntamente.
IL LINGUAGGIO
Da buon tecnico, l’autore parte dai dati. Per gli addetti ai lavori non costituiscono grosse novità, ma per il grande pubblico sì. E questo è, tra l’altro, uno dei grandi pregi del libro: smentire molti luoghi comuni con cifre solide in un linguaggio chiaro. Ad esempio: che la corruzione ci costi 60 miliardi l’anno è una bufala, che deriva dalla ripetizione acritica di formule sbagliate. Così come è una frottola che essa sia esclusiva del nostro Paese. È vero invece che è molto maggiore rispetto agli altri Stati dell’Unione Europea, che distorce l’economia e rallenta il tasso di crescita. Quali sono le sua cause? La prima, dice Cottarelli, è la complessità burocratica. E qui possiamo già passare al capitolo successivo. Da dove viene questo eccesso di burocrazia? Essenzialmente dal numero incontrollato di leggi tante, lunghe e scritte male, che a loro volta derivano dal ruolo preponderante che lo Stato e le altre pubbliche amministrazioni svolgono nella nostra economia. Per di più questo intervento massiccio si abbina a una cultura estremamente individualista, e alla mancanza di capitale sociale. Lo stesso per la lentezza della giustizia civile, che ci costa ancor più della corruzione: troppe leggi, troppi avvocati, troppa litigiosità ingiustificata. Le risorse sono in linea con quelle degli altri Paesi europei, ma sono spese male. Quindi semplifichiamo le procedure, facciamo meno cause inutili e organizziamoci meglio. Commento. Raramente le piaghe del nostro sistema economico, giuridico e burocratico sono state esposte con tanta chiarezza e incisività in così poche pagine. Alcune conclusioni possono esser discutibili: ad esempio la troppa fiducia nell’efficacia dissuasiva della repressione penale. Benchè critico nei confronti dell’eccessivo giustizialismo, anche Cottarelli cade nella trappola di alcuni luoghi comuni, come l’ affermazione che il falso in bilancio sia stato depenalizzato nel 2002. Non è vero: il reato è stato sdoppiato in un delitto e in una contravvenzione, ma sempre reato è rimasto.
Comunque, sono errori scusabili: nel complesso diagnosi, prognosi e terapie sono in linea con la logica, l’esperienza e il buon senso. Se tuttavia posso permettermi di aggiungere un’ottava piaga, a costo di vulnerare la simmetria teologica del numero perfetto, vorrei citare quella che secondo me abbraccia e riassume tutte le altre. È l’uso scriteriato del potere interdittivo. Esso è esercitato in principalità dalla magistratura ordinaria, da quella amministrativa e da quella costituzionale. Una Procura o un Tar possono chiudere una fabbrica, bloccare all’infinito ogni progetto, e disfare in un attimo quello che gli altri hanno fatto in tanti anni. La Corte Costituzionale, dal canto suo, ha demolito e snaturato riforme fondamentali, dal codice di procedura penale alla legge elettorale maggioritaria. Questo lo sanno tutti, e tutti sembrano rassegnati. Ma la disgrazia non finisce qui. I centri di potere interdittivo sono proliferati in misura esponenziale e coinvolgono autorità, vere o presunte, che si occupano di paesaggio, di archeologia, di alimentazione, di inquinamento e così all’infinito. Dall’apertura di un cantiere all’edificazione di un carcere ogni iniziativa, pubblica o privata si scontra con un apparato elefantiaco di interlocutori che ne possono ostacolare o interrompere il percorso. Cosicchè anche le imprese di grande ampiezza e momento deviano dal loro corso, e perdono il nome di azione, e l’investitore, scoraggiato come Amleto, si rifugia nell’inerzia pavida o nell’ accomodamento clientelare. Perché in Italia quasi nessuno ha il potere di fare, ma molti, troppi, hanno il potere di impedire.
LA RIFORMA
Concludo. Questo libro contiene un altro grande pregio. Di suonare, come motivo dominante, una melodia che suona assai dolce a chi confidi nell’efficacia dell’educazione civile più che al vincolo eteronomo delle leggi. Il concetto di capitale sociale, che ricorre in modo quasi ossessivo, è davvero il presupposto di ogni tipo di riforma. Ma per costituire questo capitale occorre comprendere che il perseguimento del proprio vantaggio, a danno degli altri cittadini, non è una conveniente furberia ma una grossolana stupidaggine, in quanto il conto finale sarà pagato da tutti. Mentre se il rispetto delle regole è frutto di una educazione convincente, da essa possiamo imparare che l’onesta non è soltanto doverosa ma è anche utile, perché rispettando i diritti altrui anche i nostri saranno, di conseguenza, tutelati. E quando,al momento del rendiconto, ci troveremo con un cospicuo aumento di questo capitale, avremo imparato un’altra cosa; che l’adesione spontanea alle regole di comportamento non solo è vantaggiosa, ma tutto sommato anche piacevole.