il Giornale, 3 marzo 2018
Sia benedetto Giovanni Testori, l’ultimo dei maledetti
Un quarto di secolo fa, esattamente il 16 di marzo 1993, Giovanni Testori, l’ultimo «maledetto» della cultura italiana, scrittore poeta drammaturgo e critico d’arte, se ne andava tra il dolore dei vicini, qualche moderato ripensamento e qualche risata di scherno. Com’era normale che succedesse.
Nel giorno del suo funerale ben tre persone mi dissero la stessa frase: adesso tocca a te. Da tempo infatti per tanta gente io ero «l’allievo» di Giovanni Testori. Ed era così. Eppure se mi avessero chiesto perché Giovanni fosse il mio maestro, avrei avuto qualche difficoltà a rispondere.
Gli anni trascorsi con Testori sono stati anni felici, il punto sta tutto qui. Non esiste un altro punto. Quello che ho imparato da lui, l’ho imparato da tutto quello che ci dicevamo, e non soltanto dagli argomenti «culturali».
Parlare di Manzoni, di Céline o di Picasso, oppure di pasticcerie, o sciorinare come un rosario le porcate più inenarrabili era in fondo la stessa cosa. In un libro non ci può essere solo letteratura, deve precipitarci dentro tutto, perciò è severamente vietato aver paura di qualcosa.
La cultura «alta» a quel tempo prendeva le distanze dalle cose basse. Testori invece amava le cose basse. A molti faceva schifo questo suo parlare di sangue, sperma, vomito mettendoci insieme Dio Gesù e Maria, eppure Dio stesso ha delle interiora, ossia delle budella, le «viscere di pietà» (Benedictus), e un «intimo» che «freme di compassione» (Osea) – e c’è da dubitare che quell’intimo si riferisca a qualcosa di molto spirituale.
Testori era golosissimo. Gli piaceva mangiare – soprattutto dolci – e gli piaceva veder mangiare. La mia stazza fisica lo solleticava. Forza, mangia, mangia ancora! mi esortava.
Un giorno comprai una bicicletta e con quella andai da lui, nel suo studio di Via Brera 8. Come mi vide scoppiò a ridere: ma sei matto, mi fa, grasso come sei ti verrà un infarto!
Però quando gli annunciavo l’intenzione di mettermi a dieta lui mi piantava in faccia quei suoi occhi blu (che con me si tingevano sempre di ironia) e sogghignando diceva: sei sicuro? Non ci credo manco morto...
Quando camminavamo per Milano, a qualunque ora voleva offrirmi un panino solo per il gusto di vedermi mangiare. Una volta, vicino a S. Simpliciano, entrò in una pasticceria e mi comprò una torta; voleva che la scartassi subito, lì, in Corso Garibaldi, e mi mettessi a mangiarla per la sua soddisfazione. Rifiutai garbatamente.
Avevamo in programma, tra le altre cose, di scrivere un romanzo pornografico a quattro mani. I protagonisti erano i quattro che lavoravano in una pasticceria dalle parti di Corso Magenta: il Barista Gay, la Vecchia Carampana alla cassa, la Giovane Pervertita al banco dei pasticcini e il Giovane Aitante Pasticcere del retrobottega.
Il romanzo non fu mai scritto solo perché avrebbe dovuto includere una quantità imprecisata di variazioni. La Giovane Pervertita, avvelenatrice provetta, amava assistere ai rapporti (a pagamento) tra il barista e il pasticcere, mentre la Vecchia Carampana – che era anche la datrice di lavoro degli altri tre – concedeva la location alla tresca, ossia il retrobottega stesso, tra farine, lieviti e creme, solo a patto che i due se la facessero prima con lei. I clienti, sempre maltrattati dal barista e guardati con sufficienza compassionevole dalle due streghe, non avevano un’idea chiara di quali potessero essere – date le evoluzioni dei due marchettari una volta tirata giù la claire – gli ingredienti esatti della brioche che andavano intingendo nel cappuccino...
In breve, con Giovanni si parlava di queste cose allo stesso modo in cui si parlava di Manzoni, di Tiziano, di Baudelaire, o degli infiniti aneddoti spesso esilaranti che popolavano le biografie degli attori, in particolare i miracoli che si verificavano puntualmente ogni volta che un grande attore aveva un vuoto di memoria senza che nessuno, in platea, si accorgesse di nulla.
Gli piaceva credere a tutto, credo per ragioni squisitamente estetiche. Giurava di aver visto con i suoi occhi un pittore camminare a un metro da terra, ed era sicuro che la sua casa di Novate fosse frequentata dall’innocuo fantasma di una cantante lirica sfortunata.
Mancavano pochi mesi alla sua morte quando, consegnandomi il dattiloscritto dei suoi Tre lai (secondo molti il suo capolavoro), volle spiegarmi la genesi dei diversi titoli, Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs.
Tutto era nato da Erodiàs, ennesima rilettura della storia di Erodiade, madre di Salomé.
Disse che si trovava con suo nipote lungo una provinciale dalla parti di Canzo, quando volle fermarsi in un bar-osteria per prendere un caffè. Nel bar c’era un gruppo di giocatori di briscola chiamata impegnati in una partita. All’improvviso uno di loro saltò su e gridò, furibondo, al suo compagno: «Ero di as!», ossia: avevo l’asso in mano e tu non hai capito.
Chissà se è vero. Ma, come il lettore intelligente avrà capito da un pezzo, che fosse vero o meno ha poca importanza.
Il rapporto maestro-discepolo è un rapporto mitopoietico e, al tempo stesso, un romanzo di formazione erotica. Esso investe tutte le sfere della persona, da quella intellettuale all’apparato digerente, contribuendo in modo essenziale a rovinare questa persona. Per il suo bene, certo, ma comunque a rovinarla. O a rovinare la sua falsa sicurezza di sapere chi è e di cosa vuole dalla vita.
Quando si sta troppo bene è ora di andar via, ecco il punto. E lì comincia il regno dei lupi, comincia il pericolo ma comincia anche, forse, la (faticosa, dolorosa) felicità.
Giovanni Testori è stato il mio maestro per questo, perché ogni volta che mi metto a scrivere io cerco di recuperare almeno una briciola della felicità che ho ricevuto dalla sua splendida, bastardissima compagnia. E giuro che darei tutti i premi che ho vinto per riavere un solo minuto con lui, nella sua casa di Novate, tra pittori che camminano a un metro da terra e fantasmi di soprani infelici.