la Repubblica, 5 marzo 2018
Benvenuti a Visegrad
Ieri ha parlato il popolo sovrano: se le prime proiezioni sono indicative, ci ha offerto il selfie di un Paese col mal di pancia, difficile da governare, che si sposta ai margini dell’Europa, più vicino a Budapest e a Varsavia che a Bruxelles. Oggi parleranno i mercati. E ci diranno se credono che un Paese così possa gestire il terzo debito pubblico più grande del mondo e il più alto nella Ue. Qualora la risposta fosse negativa, i guai per gli italiani comincerebbero anche prima della formazione del nuovo governo. Se poi le forze politiche vincitrici nelle urne manterranno le loro promesse elettorali, dalla flat tax al reddito di cittadinanza all’abolizione della legge Fornero, la situazione precipiterà rapidamente e il rischio di insolvenza diventerà sempre più reale.
Con il voto di ieri gli italiani hanno premiato forze che guardano con sospetto o con aperta ostilità all’Europa e alle sue regole. In questo ci avviciniamo al gruppo sovranista dei Paesi di Visegrad, Polonia, Ungheria, Cechia, Slovacchia, che contesta il diritto di Bruxelles di mettere il naso nelle decisioni sovrane di ogni capitale. Ma quei quattro Paesi hanno un debito pubblico che varia dal 36 per cento del Pil in Cechia, al 73 per cento dell’Ungheria, che lo sta rapidamente diminuendo. Il nostro è al 132 per cento e non accenna a calare. Per potersi permettere di essere sovranisti, la prima condizione è quella di non essere finanziariamente vulnerabili. E l’Italia, con il suo debito astronomico e con la sua crescita stentata, è vulnerabile come non mai. Avendo premiato forze che vogliono uscire dall’euro, come la Lega, o che in materia cambiano idea a giorni alterni, come i Cinquestelle, la nostra vulnerabilità è ulteriormente aumentata. I limiti della nostra sovranità, ci piaccia o no, sono inversamente proporzionali allo spread sui nostri titoli di stato. Che adesso rischia di salire alle stelle, come ai tempi di Berlusconi.
Dopo che i mercati avranno parlato, parlerà l’Europa. Le istituzioni europee sono grandi incassatrici. Se lo possono permettere perché hanno dalla loro la forza e la ragione. Prendono colpi, ma alla fine prevalgono, come dimostra la storia recente della Grecia e quella ancora in corso della Gran Bretagna. Dunque da Bruxelles non arriverà nessuna scomunica all’Italia. Quella che però potrebbe arrivare già a maggio, se il risultato delle elezioni porterà alla formazione di un governo populista, è una procedura di infrazione per deficit e debito eccessivi. La lettera che ne contiene le premesse è stata spedita a Roma fin da novembre.
Bruxelles ci chiede una manovra correttiva a primavera. Per ora si tratterebbe di una “manovrina” da pochi miliardi, tale da non richiedere l’aumento automatico dell’Iva previsto dalle «clausole di salvaguardia». Ma questo perché l’Europa ha fino ad oggi dato credito al governo italiano e al suo impegno ad aggiustare le finanze pubbliche concedendoci un certo margine di flessibilità. Se questa apertura di credito venisse meno di fronte a un nuovo esecutivo marcatamente populista, la correzione richiesta potrebbe rivelarsi molto più importante. Se poi lo spread cominciasse a salire, peggiorando il nostro squilibrio, la “manovrina” diventerebbe rapidamente una stangata.
A questo punto il commissariamento europeo dei conti pubblici italiani porrebbe il nuovo governo di fronte a una difficile alternativa. Rinunciare a tutte le belle promesse fatte in campagna elettorale tagliando le spese e aumentando le tasse. Oppure portare a un livello superiore la sfida a Bruxelles, mettendo in gioco la nostra appartenenza alla moneta unica e fronteggiando una minaccia reale di bancarotta. Per l’Europa, certo, sarebbe un grosso guaio. Ma per l’Italia, e per gli italiani che ieri hanno votato, sarebbe una vera catastrofe.