la Repubblica, 4 marzo 2018
Intervista a Carlo Ossola
È uno dei pochissimi italiani che possono vantare un insegnamento al Collège de France, istituzione tra le più prestigiose che esistono in Europa. È un mondo particolare quello del Collège, mi racconta Carlo Ossola che è lì da tanti anni. Un mondo in cui la libertà di insegnare è scevra da vincoli burocratici. Michel Foucault vi ha tenuto i suoi corsi più prestigiosi. Ma anche Roland Barthes e naturalmente Claude Levi-Strauss. “Insegno lì da quasi vent’anni. Non abbiamo obblighi di esame. Non entri al Collège perché sei uno specialista; ti accolgono se hai qualcosa di importante da dire su una materia che si presume sia di tua competenza. Uno dei primi italiani a insegnarvi è stato Giordano Bruno, anche Umberto Eco ha lasciato la sua impronta. Sai, è l’unica grande istituzione che la Rivoluzione Francese ha lasciato intatta”. La cattedra di Ossola è Letterature moderne dell’Europa neolatina, forse il nucleo di una civiltà che sembra aver smarrito la propria missione.
Il tuo ultimo libro, edito da Marsilio, “Nel vivaio delle comete”, ha al centro l’Europa culturale e le figure che hanno contribuito a formarla. Sei uno dei pochi che rema fiducioso controcorrente?
“Fiducioso lo sono stato. Pensa cos’era, dal punto di vista dell’atteggiamento mentale, il 1999, quando entrai al Collège. Qualche anno prima, nel 1992, fu istituita la cattedra europea che inaugurò Umberto Eco. C’era non solo fiducia nell’avvenire, ma un’euforia che riscontravi nelle facce, negli sguardi, e nelle parole di tutti. Oggi hai l’impressione di vivere completamente in un altro film”.
Siamo regrediti.
“Le società non stanno mai ferme. Il senso dei miei ultimi libri è proprio questo. Se oggi l’Europa ha una chance, non la trovi nella politica o nell’economia, che pure sono gli strumenti imprescindibili, ma nella cultura. Nella ricostruzione meticolosa di quelle figure che hanno contribuito a rendere grande il vecchio continente. E da questo punto di vista il Collège, come altre prestigiose istituzioni, può ancora assolvere a una funzione fondamentale”.
Ammetterai che è un po’ una vecchia storia quella che gli intellettuali si mettono la mano sulla coscienza, fanno il loro bravo esame, riparano le strade, mettono i segnali e indicano la direzione. Anche le grandi istituzioni viste oggi sembrano animali in via di estinzione.
“È probabile che tu non abbia torto sulle difficoltà dell’attuale lavoro intellettuale, ma c’è una linea, a volte invisibile, che merita di essere difesa. A proposito di animali in via di estinzione ti voglio raccontare un piccolo episodio che riguarda proprio il Collège de France”.
Racconta pure.
“Qualche anno fa a un gruppo di professori, tra cui il sottoscritto, è venuto in mente un progetto che poteva sembrare bizzarro: portare il Collège nelle periferie parigine. Cioè in quei luoghi di solito visti come ghetti inaccessibili, segnati dalla povertà, dall’alto tasso di criminalità e da una rabbia sociale che spesso viene raccontata in modo prevedibile dai giornali e dalla televisione. In una riunione che facemmo al Collège decidemmo che non sarebbe stato male scegliere un tema distante dall’attualità e tuttavia capace di interpellare le nostre radici. Ci mettemmo d’accordo su una lettura dell’Odissea e il relativo commento da parte di qualcuno di autorevole. Sì, ma chi? La scelta cadde su Jean-Pierre Vernant. La banlieue era Saint-Denis, la più povera di tutta l’Ile-de-France. Avevamo chiamato quegli appuntamenti i “Lunedì di Aubervilliers”, la località a Nord di Parigi, dove si svolgevano”.
Perché sceglieste Vernant?
“Era membro onorario del Collège e poi chi meglio di lui avrebbe potuto parlare dell’Odissea di Omero? Il problema semmai era un altro: avrebbe accettato? Era ormai anziano e anche piuttosto malandato. Gli telefonai una sera proponendogli la cosa. Sulle prime sembrò restio. Cercai di convincerlo e alla fine accettò. Capì credo l’importanza della sfida: il Collège che andava nei luoghi più difficili. Era qualcosa di rivoluzionario. Aggiunse solo: sbrigatevi che non mi resta molto tempo”.
A quel punto cosa accadde?
“L’incontro avvenne alla fine dell’ottobre del 2006, nella palestra del liceo locale. Vernant arrivò in sedia a rotelle. Sorpreso dalla tantissima gente che era lì ad aspettarlo. Gente locale, giovani e donne. Fu un evento. Parlò per due ore, ininterrottamente. Leggevo nei suoi occhi la fatica. Un silenzio rapito accompagnava le sue riflessioni su Ulisse. Semplicemente straordinario. Alla fine mi disse che i medici lo avevano fortemente sconsigliato di andare ma che non se l’era sentita di abbandonarci all’ultimo momento. Fu quella la sua ultima conferenza. Vernant sarebbe morto pochi mesi dopo, nel gennaio del 2007”.
È una storia bellissima.
“È una storia di dedizione e di passione. Ma in fondo qual è la morale? Il Collège aveva messo in atto una specie di civilia officia un nostro dovere nei riguardi della vita civile, senza guardare al censo, al colore della pelle, o al grado di cultura che ci aspettavano”.
Prima del Collège de France dove insegnavi?
“A Torino, dove sono nato, i miei erano di Settimo Torinese, e dove ho studiato. Poi per alcuni anni sono stato a Ginevra”.
All’università chi sono stati i tuoi maestri?
“Franco Venturi, storico dell’illuminismo e Raoul Manselli, medievista, studioso di utopia e apocalisse. Una delle frasi ricorrenti di Manselli a noi studenti era: ricordatevi che l’eresia è la parte sconfitta della verità. Eravamo alla vigilia del ‘68. Torino cominciava a sussultare. La contestazione si accese nel novembre del 1967. Durante una lezione di Venturi irruppe in aula un giovane molto agguerrito. Gridò che la lezione era sospesa e ingiunse ai presenti di andare all’assemblea. Venturi si accarezzò il pizzo e poi chiese a quel giovane a che ora si era alzato. Quello lo guardò sconcertato”.
Come reagì?
“Non reagì anche perché Venturi disse: si ricordi che per prendere il potere bisogna alzarsi alle cinque! Era mezzogiorno. Ci fu una risata generale e il “capopopolo” batté in ritirata. Ad ogni modo il professore con cui mi laureai fu Giovanni Getto. Fu lui a darmi una tesi che non riuscii a portare a termine. L’argomento era Dante e l’Antipurgatorio. In due anni lessi di tutto ma alla fine non c’era modo per venirne a capo. Andai da Getto e gli dissi che rinunciavo. Scosse il capo, allargò le braccia e commentò: lei non sa cosa si è perso”.
Lo disse con quale sfumatura?
“Non di disprezzo ma quasi di compatimento. A quel punto mi assegnò una nuova tesi sul Rinascimento e la Controriforma. Tra i maestri che hanno contato in quegli anni torinesi c’è stato anche Luigi Pareyson. Mise su una scuola eccellente. Seguii un suo corso indimenticabile sui Pensieri di Pascal. Credo di aver appreso proprio attraverso quelle lezioni l’importanza del “pensiero agonico” che mi ha spinto ad approfondire la tradizione francese più radicale: da Baudelaire a Camus”.
Quando parli di pensiero agonico a cosa ti riferisci?
“A uno stato dell’anima che sa accettare lo smarrimento. È una lunghissima storia che inizia con la biblica lotta di Giacobbe con l’Angelo. E arriva allo sgomento che prova Pascal quando considera l’infima durata della sua vita. È un pensiero consapevole della fragilità umana”.
Ti accade di pensarci?
“Mi accade, certo. Ma in che senso me lo chiedi?”.
Nel senso più privato, o forse dovrei dire più personale.
“La mia è stata e continua ad essere una vita di libri. Ma perché questi non siano strumenti polverosi o, ancor peggio, ostacoli che ci dividono dal mondo, dobbiamo ritrovarci noi stessi. A patto però di perdersi prima”.
L’idea dello smarrimento si è spesso vista in relazione alla grande disparità tra noi e il mondo, l’infinito, Dio.
“Il pensiero nasce sempre da una differenza, a volte abissale, e da una sfida. È impressionante come Baudelaire riesca a parlare del divino sotto un cielo vuoto di Dio: sul fondo dell’ignoto”.
Qualcosa di profondamente analogo intuì Nietzsche.
“Entrambi ruppero l’ottimismo nomenclatorio della filosofia e letteratura ottocentesca. Inghiottendo la posterità. Che può solo ripetere quanto essi furono capaci di immaginare”.
Come sono stati i tuoi anni a Ginevra?
“Proficui e belli. Vi arrivai trentenne. Feci domanda di insegnamento. La commissione era presieduta da Jean Starobinski e Maria Corti. Furono molto generosi e accoglienti. Ho insegnato a tempo pieno dal 1976 al 1982. Ginevra ha avuto la più incredibile concentrazione di sapienti. Ricordo le lezioni di George Steiner, Michel Butor, Bronislaw Baczko, Jean Rousset, ovviamente Starobinski”.
Che rapporti hai avuto con lui?
“Mi ha onorato della sua amicizia. Oggi ha quasi 98 anni e a volte, quando vado a trovarlo, ho l’impressione malinconica di una figura che appartenga a un mondo che non c’è più”.
Sulla malinconia Starobinski scrisse cose molto belle.
“Da lui ho imparato che la vita di uno studioso è fatta di dettagli, anche apparentemente insignificanti. E che il sapere, oltre le increspature di superfice, si alimenta di onde profonde. Ha avuto l’enorme vantaggio di essere medico e letterato. Dicevi la malinconia. Negli anni Cinquanta Starobinski lavorò in un ospedale psichiatrico non distante da Losanna. Quell’esperienza fu fondamentale per orientarlo sullo studio della malinconia e sul modo diverso che gli antichi avevano di affrontarla rispetto a noi moderni”.
Chi altro vedevi?
“Gli incontri e gli incroci furono numerosi e ripetuti. Ma due persone mi colpirono: l’ultimo Roland Barthes e Michel De Certeau. Barthes lo conobbi verso la fine quando si era liberato della sua teoria dei segni, dello strutturalismo e del metodo per passare alla traccia che lascia l’affetto. Credo che al mutare del suo sguardo contribuì il rapporto sofferto e doloroso con la madre. La scomparsa di questa donna lo gettò in uno sconforto assoluto”.
Quanto a De Certeau?
“Era un gesuita. Veniva invitato il sabato a tenere lezione alla facoltà di teologia. Ancora oggi, se ripenso alle prime cento pagine del suo libro più famoso, L’invenzione del quotidiano, mi accorgo che sono come un poema in prosa. In anni in cui la sociologia tendeva a ridurre l’individuo al conformismo della società di massa, De Certeau scopriva la creatività che si nasconde nel quotidiano. Le strategie, le astuzie, spesso inconsce, che gli individui adottano per sfuggire alle regole. Parlava di “bracconaggio sociale”. Parlava soprattutto un italiano curioso. Gli chiesi dove lo avesse appreso. Mi disse che sua madre gli leggeva, prima di andare a letto, un canto di Dante. Prodigi della poesia”.
Ti sei occupato molto di linguaggio poetico. Hai una definizione plausibile?
“Della parola poetica non mi sentirei di dare una mia definizione. Mi piace ciò che scrisse Paul Celan: la poesia è la parola elevata a tenda, capace di riunire sotto di essa gli altri (“la chiara tenda da rizzare/ mediante il canto”). Amo la poesia che non è solo gioco gratuito, la poesia che nasce dalla vita. Lo ritrovo nei grandi poeti del ‘900: in Eliot, de La terra desolata e dei Quattro quartetti, dove è racchiuso il senso stesso del XX secolo; in Ungaretti, in Caproni, in Luzi o in quello che fu anche un grande amico: Yves Bonnefoy, che considerava l’improbabile come la sola via di uscita dall’evidenza del dato”.
Cosa è stata la vostra amicizia?
“Da parte mia riconoscenza verso un maestro che ha insegnato al Collège; da parte sua una forma di generosità di cui gli sarò sempre grato. Lo vidi l’ultima volta una settimana prima che morisse. Era la fine di giugno di un paio di anni fa. Era in ospedale, fui tra i pochi che la figlia ammise per un ultimo saluto. Non parlava quasi più. C’erano solo sguardi e sillabe in quel momento. Poi il congedo. Gli strinsi la mano e lui disse soltanto: “Carlo, le bien social”. Pensare al bene della comunità prima che a quello della persona, intendeva. E in quel momento ho anche desiderato che quella piccola frase fosse un monito per noi che abitiamo il vecchio continente con la stanchezza di chi non ha più nulla da sognare. Ho pensato all’Europa che ho sempre amato, quella della sociabilità dei Lumi e di Goldoni, dell’impegno e del distacco raccontato da Norbert Elias. Che ne è di tutto questo, di tutti coloro che ci hanno reso grandi e importanti? Vorrei che l’Europa del XXI secolo capisse quello che stiamo perdendo. O che abbiamo perduto”.