la Repubblica, 4 marzo 2018
L’amaca
Di Maio corre a Pomigliano d’Arco, la sua città, restituendo al territorio, che è una vecchia e sana categoria della politica, almeno parte di quel potere che il suo partito, un poco esotericamente, dice di volere affidare al web.
Il classico “seggio sicuro”, con le pacche sulle spalle dei compaesani e magari qualche scambio di battute in dialetto: uno dei tanti inevitabili aggiustamenti di chi, partito per ribaltare la politica, ne viene un poco ribaltato, e per fortuna.
I cinquestelle, mano a mano che da movimento messianico diventano partito di massa, non fanno “più paura”: ne fanno un po’ di meno, perché la pratica di strada, di quartiere e di studio televisivo sbiadisce quell’aura aliena che li rende indigeribili a noi comuni mortali. Accadde già a Berlusconi (ben più potente, più ricco e dunque più eversivo di Di Maio) di scendere a Roma per smantellare il “teatrino della politica” e diventarne uno degli indiscussi mattatori; nel caso i cinquestelle stravincessero, come loro dicono, anche per loro interverrebbe una stagione di normalità, adeguamenti, ripensamenti. Dovessero salire al Quirinale non presenterebbero una lista di algoritmi, ma di ministri.
Anche per fare la cosiddetta antipolitica, alla fine, si è costretti a fare la politica, e questo suggerisce l’ipotesi che le tre Italie che oggi vanno a votare abbiano almeno una cosa in comune: una Repubblica con la quale fare i conti.